Luca Bianconi di Polycart: il vantaggio di essere “bio”

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Nell’immaginario comune, il sacchetto della spesa è un bene “povero” che viene prodotto in paesi a basso costo. Nella realtà però non è così, soprattutto quando si parla di shopper biodegradabili e compostabili a norma di legge. Alcuni di quelli che troviamo nei supermercati sono made in Polycart, un’azienda di Assisi fondata nel 1977 da Giampiero Bianconi, Alfredo Fantucci e Giuseppe Bianchi, nata come specialista nell’estrusione di film in polietilene ad alta densità. Una realtà come tante nel panorama industriale italiano, che nel 1995 decide di compiere una precisa scelta strategica avviando una collaborazione con Novamont per sperimentare il converting di Mater-Bi, biopolimero che oggi rappresenta circa il 75% delle materie prime lavorate dalla realtà umbra. «È stata una vera palestra di esperienze e conoscenze, cominciata con un materiale dalle caratteristiche assai diverse da quelle attuali e arrivata allo sviluppo di macchine, tecnologie e accorgimenti per gestirne la trasformazione» racconta l’attuale AD Luca Bianconi. «Non potevamo ancora saperlo con certezza, ma stavamo creando una grandissima opportunità: il tempo e i continui investimenti ci hanno permesso di crescere insieme ai nostri partner, con reciproca soddisfazione». Da allora, l’azienda ha raddoppiato la capacità produttiva, toccando le attuali 8.000 tonnellate, e soprattutto triplicato il fatturato nel decennio 2010-2020.

Come è nata l’idea di puntare sulle bioplastiche?
La nostra azienda ha sempre avuto nel DNA la tendenza a voler percorrere strade diverse rispetto alla concorrenza, anche a costo di sperimentare soluzioni davvero inedite. Siamo partiti producendo film per la pacciamatura e l’imballo industriale utilizzando due gradi di Mater-Bi diversi, non tanto perché destinati a due applicazioni differenti, quanto per adattarsi alle macchine per lavorarli a disposizione dei clienti. Un particolare che rende perfettamente l’immagine di quanto i primi approcci fossero quasi artigianali e certamente complessi. L’esperienza acquisita sul campo si è rivelata utile per crescere, guardando con occhi diversi i possibili nuovi sviluppi di mercato. L’attenzione a ciò che si muove attorno a noi, a livello sia normativo sia tecnologico, è ancora oggi una condizione che riteniamo imprescindibile per compiere scelte imprenditoriali corrette, continuando a mettere in conto che in un settore ancora nuovo e in grande evoluzione possono anche verificarsi dei piccoli incidenti di percorso.

È stato difficile convertire gli impianti per passare dalle plastiche tradizionali a quelle bio?
Essere stati tra i primi a lavorare con le bioplastiche ci ha permesso di affrontare problemi più seri in una fase iniziale, per poi disporre di una maggiore flessibilità, anche nelle scelte, negli anni successivi. Con il tempo e l’esperienza siamo riusciti a trovare soluzioni tecniche per utilizzare negli stessi impianti il polietilene come il Mater-Bi. Una buona progettazione delle linee produttive e accorgimenti durante la trasformazione eliminano infatti gran parte delle complicazioni. Per chi iniziasse oggi, le maggiori difficoltà tecniche al momento di uno switch degli impianti probabilmente sorgerebbero nella fase di estrusione. Vanno poi messi in conto i tempi tecnici per ottenere le certificazioni, che impediscono una riconversione produttiva dall’oggi al domani. Le tempistiche obbligate, quindi, impongono da sei mesi a un anno prima di poter iniziare a produrre.

Ritiene che le bioplastiche siano realmente vantaggiose per l’ambiente?
Il vero valore aggiunto dei biopolimeri è legato al fine vita del manufatto, pertanto il successo di questi materiali è legato a doppio filo con una corretta raccolta della frazione organica, che vede l’Italia tra i paesi leader e maggiormente in linea con le direttive europee. Bioplastiche e compostaggio sono nati insieme e devono crescere di pari passo. È pur vero, però, che non si può pensare di risolvere i problemi ambientali sostituendo le plastiche da fonti fossili con quelle bio. Le plastiche tradizionali, infatti, sono imprescindibili in tante applicazioni e pertanto non è corretto parlarne come di un materiale inquinante in senso assoluto. Ritengo che per cancellare anni di demonizzazione sia necessario promuovere la cultura del riciclo nel consumatore finale e migliorarne la gestione in fase di raccolta e recupero, puntando a valorizzare i singoli monomeri per rigenerarli e produrre altri materiali con valore intrinseco.

La nostra azienda ha sempre avuto nel DNA la tendenza a voler percorrere strade diverse rispetto alla concorrenza. Puntare sulle bioplastiche, già nel 1995, è stata la decisione giustaLuca Bianconi

Quando avete iniziato a raccogliere risultati tangibili del cambio di passo?
Se prima del 2010 il mercato delle bioplastiche era davvero marginale, la svolta si è avuta con la progressiva riduzione dell’uso degli shopper in polietilene, che ha cambiato la percezione sulle bioplastiche. Un obiettivo raggiunto, tra l’altro, riportando in Italia produzioni che da tempo erano ormai completamente all’estero e di questo credo vada dato merito alle aziende che hanno creduto nelle potenzialità dei nuovi materiali e di conseguenza investito. Sempre con uno spirito pionieristico, nel biennio 2013-14 abbiamo acquistato due macchinari per la produzione di sacchetti per ortofrutta, così quando è stato necessario adeguarsi alle normative sugli ultralight eravamo già pronti. Certamente, si è trattato di un passaggio molto più soft rispetto al vero e proprio terremoto a cui il settore è stato sottoposto nel 2010, con una transizione improvvisa dallo shopper in polietilene a quello compostabile. Oltre alle idee, anche l’attività di ricerca e sviluppo ha segnato le tappe della nostra evoluzione: si pensi che nell’ultimo triennio abbiamo investito 10 milioni di euro, una cifra significativa per un’azienda con un fatturato di circa 23 milioni, che rende l’idea di quanto per noi sia importante non fermarsi ma pensare al futuro. Oggi la transizione verso le bioplastiche sta permettendo un progressivo maturare della filiera, che sta cominciando a diventare interessante per numeri e fatturato, anche grazie all’ingresso di grandi trasformatori. Guardando al mercato, sentiamo di aver intrapreso un percorso che ci inorgoglisce, perché se nel settore delle plastiche tradizionali eravamo solo una piccolissima frazione produttiva sul totale, oggi in quello delle compostabili rappresentiamo tra il 5% e l’8% dei volumi trasformati in Italia, uno dei principali mercati in Europa.

Qual è il vostro mercato geografico di riferimento?
Sicuramente l’Italia rappresenta il nostro punto di riferimento assoluto, anche se non trascuriamo l’estero. Nel 2019 l’export ha toccato il 20% del fatturato, quota diminuita a seguito della pandemia, ma che contiamo di recuperare anche grazie a nuovi progetti che abbracciano mercati come l’Australia e gli Stati Uniti, e realtà particolari come il Cile. A questo proposito basti pensare che siamo riusciti a distribuire i nostri film per pacciamatura perfino sull’Isola di Pasqua, il luogo più remoto del mondo.

Polycart ha sviluppato procedure interne per rigenerare gli scarti post industriali in bioplastica?
Nel 2019 abbiamo fondato BioPlastic Recycling, una newco per il recupero e la rigenerazione di sottoprodotti. Anche la bioplastica, infatti, può essere riciclata proprio come quella tradizionale, con un risvolto economico affatto trascurabile. Guardando ai volumi, si pensi infatti che il 10-12% del materiale in lavorazione genera scarto, che è quindi conveniente recuperare, macindandolo e riestrudendolo per ottenere granuli con caratteristiche praticamente identiche a quelli di partenza.

Per tornare ad approccio strategico e ricerca. Come nascono le idee e come le sviluppate?
In Polycart il settore della ricerca non ha solo lo scopo di portare innovazione di prodotto e processo, ma anche di studiare soluzioni che rispettino e tutelino l’ambiente in cui viviamo. Sempre più spesso lo sviluppo di nuovi prodotti avviene in stretta sinergia con il cliente, mentre in altri casi, come nella carta accoppiata, è frutto di continue evoluzioni delle applicazioni su cui siamo impegnati da anni. Da noi la ricerca è un processo aperto a tutti: crediamo che le buone idee possano nascere ovunque e da chiunque, pertanto riteniamo essenziale non chiuderla in laboratorio, ma lasciare che permei i vari reparti della fabbrica, motivando i collaboratori condividendo obiettivi e risultati. Per metter a frutto questo approccio, nell’ultimo triennio abbiamo investito più di un milione di euro su nuovi progetti complessi quanto affascinanti, che si sono rivelati davvero promettenti.

Dunque, fare squadra è un altro elemento chiave per l’impresa di cui è ai vertici…
Certamente. Va in questa direzione la nostra adesione a GPT (Gruppo Poligrafico Tiberino), una società di capitali rappresentativa di un network di imprese costituite in forma di contratto di rete, di cui GPT è l’organo gestore. Nata nel 2007 da un progetto di ricerca di interesse nazionale sviluppato dall’Università degli studi di Perugia, messo poi in pratica da uno spin-off universitario, rappresenta un modello innovativo di proposizione verso il mercato e di innovazione verso le aziende. È un punto d’orgoglio, perché un conto è sottoscrivere un contratto di rete, diverso è crederci fino in fondo. Oggi GPT è diventato un vero incubatore di idee che si è tradotto in un moltiplicatore di fatturato, permettendoci di crescere anche intercettando e utilizzando fondi comunitari, gestendo soprattutto la parte logistica ma anche della comunicazione, liberando in questo modo energie per le aziende che possono concentrarsi maggiormente sulla produzione e il servizio al cliente.

La pandemia ha impattato duramente sull’horeca, mettendo sotto pressione alcuni comparti della trasformazione di bioplastiche. Ne avete risentito?
Dal punto di vista strettamente economico, non abbiamo sofferto particolarmente nel 2020, soprattutto per il ruolo decisivo giocato dalla grande distribuzione. Parlando da imprenditore, però, non nascondo che siano stati mesi davvero difficili, soprattutto per la preoccupazione di dover gestire un’azienda in emergenza, temendo per la salute dei dipendenti, ma anche per l’incertezza sul futuro. Dal punto di vista strettamente produttivo, dopo qualche difficoltà con le consegne all’estero in febbraio e marzo, seguite da un leggero rallentamento dovuto al calo dei consumi, abbiamo continuato a lavorare. A dimostrazione che anche le difficoltà possano far nascere spunti interessanti, si pensi che nel periodo della pandemia abbiamo lanciato la produzione dei guanti monouso biomade completamente compostabili.

Shortage e caro polimeri hanno toccato anche il vostro settore?
Non si è arrivati al raddoppio dei prezzi, ma ad aumenti nell’ordine del 15-25%, che rappresentano comunque un fattore eccezionale, dato che storicamente i biopolimeri non soffrono di variazioni repentine, mostrando andamenti abbastanza stabili nell’arco di un anno. Essendo però il nostro settore molto più ristretto rispetto a quello delle plastiche tradizionali, anche la minima variazione può essere destabilizzante. Un problema ulteriore è stata la carenza di alcuni monomeri indispensabili per la produzione di materiale compostabile a seguito delle politiche commerciali attuate dalla Cina al momento della ripresa. A tutto questo va sommata una certa preoccupazione per i possibili effetti inflattivi che, se uniti al rallentamento dell’economia, potrebbero portare a effetti gravi.

Il vero valore aggiunto delle bioplastiche è il fine vita del manufatto, legato a doppio filo con una corretta raccolta della frazione organica, che vede l’Italia tra i paesi leader in EuropaLuca Bianconi

La Direttiva SUP non fa distinzioni tra plastiche tradizionali e bioplastiche, ma l’Italia sembra stia avviando un cammino diverso. Ritiene che sia la scelta corretta?
Nella direttiva SUP troviamo una chiara definizione di plastica compostabile e la messa al bando delle plastiche oxodegradabili (plastiche tradizionali con additivi pro degradanti) perché non biodegradabili e compostabili. È quindi ragionevole pensare che in Italia ci siano chiari spazi per attuare una transizione – già avviata da tempo dal mondo industriale e dalla GDO – verso materiali plastici compostabili in stretta connessione con la raccolta differenziata della frazione organica e mantenendo le dovute garanzie di igiene e sicurezza alimentare. Ritengo inoltre che sia necessario puntare a una progressiva diminuzione di certi tipi di materiali per i monouso, come già avvenuto in passato con la legge sulle buste della spesa. Quindi, in sintesi, sono convinto che il monouso compostabile sia uno strumento per continuare nella virtuosa politica di raccolta e valorizzazione della frazione organica attraverso la produzione di compost di qualità e per porre l’Italia come dimostratore di riconversione di un intero settore industriale in ottica non sostitutiva 1:1.

C’è chi pensa che le associazioni di categoria di riferimento per le bioplastiche e le plastiche tradizionali non abbiano costituito un fronte comune per ribattere alla campagna plastic-free. Ritiene che sia davvero così?
È difficile giudicare un processo fatto di logiche complesse… Il mondo della plastica può fare fronte comune se si parla di cultura anti-spreco e per informare il consumatore sulle modalità di differenziazione al fine di arrivare a un riciclo sempre più corretto e puntuale. Diventa però meno agevole uniformare pareri e azioni quando sono in gioco gli interessi di due mondi diversi. E, in questo caso, le associazioni che rappresentano le industrie della plastica e della bioplastica possono legittimamente scegliere di perseguire al meglio i propri interessi, che tuttavia non sempre coincidono. Infine, sono convinto che la nascita di Biorepack (il consorzio EPR delle bioplastiche) e la sua collocazione in ambito Conai potrà contribuire ad aumentare la consapevolezza e l’informazione a tutti i livelli.

Parlando di sogni. Nel futuro di Polycart cosa vede?
Non è facile dirlo, perché il nostro settore sta evolvendo in modo talmente rapido da rendere molto complicata qualsiasi previsione accurata oltre un orizzonte temporale di due anni. Certamente la pandemia ha ulteriormente complicato la situazione, ma auspico che quanto accaduto ci costringerà a ripensare modi di produrre, riportando in Italia tante lavorazioni che oggi sono regolate solo ed esclusivamente da un’attenzione ossessiva per il prezzo. Vedo insomma l’occasione per l’imprenditoria italiana di reimpossessarsi della capacità di produrre e offrire qualità, alzando l’asticella senza adeguarsi alla mediocrità degli altri.


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