La globalizzazione ha favorito lo sviluppo di un sistema economico che travalica i confini nazionali, la cui evoluzione impone alle imprese continue sfide e cambiamenti strategici. Avventurarsi in mercati complessi, competitivi, spesso alla ricerca di un elevato grado di innovazione, non richiede solo precise skill imprenditoriali, risorse finanziarie e capacità di operare in contesti profondamente diversi da quello italiano, ma apre anche nuovi scenari in tema di operatività. Tra questi, uno degli aspetti più delicati riguarda il rapporto con i dipendenti che si spostano all’estero per ragioni di lavoro, con inevitabili ripercussioni nella gestione fiscale e previdenziale.
Dalla safety alla security
La normativa italiana è sempre stata molto specifica e ben articolata in tema di tutela delle risorse umane funzionalmente alla salute e alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Da oltre mezzo secolo la materia viene ampliata e aggiornata con l’inserimento continuo di interventi che puntano a migliorare la “safety”, ai quali negli ultimi anni si stanno aggiungendo provvedimenti a sostegno della “security” alla luce della crescente internazionalizzazione delle aziende italiane. All’estero, il lavoratore deve infatti affrontare il rischio professionale sia nelle sedi in cui opera, sia quelli contestualizzati a un diverso substrato ambientale e socioculturale.
Tuttavia, se per la safety gli imprenditori possono disporre di una corposa legislazione, per la travel security ancora non esistono normative specifiche, ma soltanto indicazioni derivanti dallo studio indiretto di casi particolari. Nonostante il quadro normativo non sia ancora ben definito, grazie alle pronunce delle Corti, la materia in tema di travel security si sta però delineando, imponendo obblighi sempre maggiori in materia di sicurezza nazionale ed estera. Il datore di lavoro, quindi, è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. E lo deve fare applicando le misure preventive previste dal Duty of Care (DoC).
La tutela nazionale
Negli anni, il diritto italiano ha prescritto numerosi strumenti a tutela del lavoratore. La prima normativa specifica sulla safety risale agli anni Cinquanta – il DPR 547/55 (Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) – alla quale nel 1984 si aggiunge la Normativa per la prevenzione degli incendi (L. 818) e nel 1996 la Direttiva macchine. Il provvedimento più incisivo, però, è il D.Lgs. 626 del 1994, che – abrogando tutte le precedenti norme in materia di sicurezza sul lavoro – istituisce il cosiddetto “debito di sicurezza” verso il lavoratore, con la creazione del Servizio di Prevenzione e Protezione, e del relativo Responsabile, e la figura del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, e con l’introduzione dell’obbligo per le aziende alla predisposizione del Documento di Valutazione dei Rischi. Dopo quattordici anni, nel 2008 il D.Lgs. 626 viene sostituito dal D.Lgs. 81, il ben noto Testo Unico (TU) sulla sicurezza, che regola la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Il Decreto, che accorpa una serie di norme maturate nel corso degli anni, nel 2009 viene integrato con il D.Lgs. 106.
Con il TU si stabiliscono nuove regole e procedure, nonché una serie di misure preventive da adottare affinché i luoghi di lavoro risultino più sicuri, qualunque essi siano. E, come vedremo, anche ovunque essi siano. Lo scopo del Decreto è quello di evitare – o almeno ridurre al minimo – il rischio per i dipendenti, funzionalmente all’attività lavorativa, sottraendo gli stessi da infortuni, incidenti o malattie professionali. Sale quindi la soglia dell’attenzione da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore.
Il reato delle imprese
Un altro filone afferente alla tutela del lavoratore è quello seguito dal D.Lgs. 231 del 2001 (si veda il riquadro) che – superando la vecchia teoria giuridica secondo cui “societas delinquere non potest” – introduce nell’ordinamento italiano la responsabilità amministrativa degli enti per reati commessi nel loro interesse o vantaggio da persone legate al soggetto giuridico. Quando si parla di enti si fa riferimento all’azienda, considerata quale persona giuridica. Come può, però, un’impresa – nella sua accezione complessiva – commettere un reato? Lo fa attraverso determinati soggetti individuati dal Decreto, ovvero persone fisiche che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione, direzione o controllo, dell’intero ente o di aree organizzative dotate di autonomia finanziaria e funzionale, e che svolgono, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente stesso (i cosiddetti soggetti apicali), persone fisiche sottoposte alla direzione o vigilanza dei soggetti sopraindicati, o coloro che operano per nome e per conto dell’ente, attraverso un mandato e/o un qualsiasi accordo di collaborazione o conferimento di incarichi. I reati previsti e punibili dal D.Lgs. 231 sono diciotto. Inizialmente erano prettamente societari, in ambito economico (corruzione, malversazione e indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, truffa a danno dello Stato o di altro Ente pubblico…), ma successivamente il testo è stato integrato con nuovi provvedimenti legislativi, ampliando il raggio d’azione: oggi, sono previsti nuovi reati riconducibili in capo alla società, tra i quali omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro.
Le misure preventive: formazione e informazione
Appurato che, a livello nazionale, esistono importanti strumenti di tutela sulla safety, come si disciplina la materia sulla security? Oggi all’imprenditore viene richiesto un adeguamento ai tempi e alle norme, in un contesto internazionale di mobilità del dipendente. Deve quindi analizzare i diversi tipi di rischio a cui può essere sottoposto il soggetto in trasferta, contestualmente alle tipicità culturali e geografiche non sempre note. Queste misure preventive, fondamentali nella gestione delle trasferte estere, rappresentano il già menzionato Duty of Care, concetto anglosassone traslato nella nostra comunità imprenditoriale. Letteralmente, l’accezione si traduce come “obbligo di protezione”. Pertanto, per tutelare il dipendente, evitando una ricaduta di responsabilità in capo all’azienda e al datore di lavoro, è necessario adottare preventivamente una serie di comportamenti che, in un certo senso, valgono anche come “scarico di responsabilità”. Il primo punto del DoC è rappresentato da formazione e informazione: è necessario che ogni dipendente venga formato sul paese nel quale si reca, attraverso materiali specifici (schede paese), e informato sui possibili pericoli e rischi a cui potrebbe essere esposto, anche funzionalmente agli usi e costumi locali. Pensiamo al rischio culturale: spesso, ignorando le regole di comportamento obbligatorie nel paese di destinazione, si incorre in situazioni particolarmente fastidiose e di difficile gestione. Il classico, banale, esempio riguarda il consumo di alcoolici in alcuni Stati islamici, divieto che può essere punito anche severamente. È evidente che, prima di formare il dipendente, il datore di lavoro deve conoscere il quadro normativo, nazionale e locale del paese, perché la legge prevede una serie di responsabilità a suo carico. Conoscendo la norma e applicandola alla lettera può evitare di incorrere in situazioni civilmente e anche penalmente rilevanti, come accaduto negli ultimi anni (si veda il paragrafo dedicato al caso Bonatti).
Pianificazione e monitoraggio
Nel Duty of Care si fa riferimento anche alla valutazione, pianificazione, mitigazione e monitoraggio del viaggio, operazione fondamentale per stabilire la reale necessità di trasferta, comparando costi, rischi e benefici. In caso positivo, ogni movimento deve essere pianificato e il viaggio monitorato e supervisionato continuamente. L’azienda deve seguire il lavoratore – da remoto – tenendosi aggiornata sulle condizioni di sicurezza del paese attraverso i principali centri di informazione (ovvero il MAECI, le ambasciate e i consolati), ma anche ricorrendo a Managed Security Service Provider oppure a strumenti di tracking per individuare tempestivamente eventuali criticità. Il datore di lavoro, secondo il legislatore italiano, deve inoltre prevedere un’assicurazione per ogni viaggio con le debite coperture in termini di caso di morte o invalidità permanente, senza dimenticare la protezione del patrimonio personale dei dirigenti da eventuali richieste di danni per violazione della normativa di settore. La polizza deve includere anche la copertura per cure urgenti da infortunio, grandi interventi chirurgici, anticipo delle spese di prima necessità, anticipo di cauzione penale, supporto di un legale, soprattutto per eventuali danni derivanti da atti di terrorismo.
I fattori di rischio
Abbiamo parlato di valutazione, pianificazione, mitigazione e monitoraggio del viaggio e delle misure per prevenire i rischi, ma – di fatto – quali sono? Quali elementi necessitano di un celere intervento per evitare il peggio? Ci riferiamo a quelle situazioni che, se verificatesi, potrebbero portare in capo al datore di lavoro una serie di responsabilità e colpe, con l’accusa di non aver ridotto le probabilità di verificarsi dell’evento attraverso una tutela specifica. In primis c’è il rischio criminale, che in alcune aree del mondo può essere davvero elevato e soprattutto scarsamente tutelato dalle forze dell’ordine, talvolta oggetto di forte corruzione. Diverso dalla criminalità è il terrorismo, che non ha come obiettivo il lavoratore ma, indiscriminatamente, qualsiasi soggetto che si trovi casualmente in luoghi sensibili. Il coinvolgimento in questa situazione, pertanto, può essere casuale. Oltre all’informazione preventiva, per gestire questo tipo di criticità, è fondamentale costituire, soprattutto per la permanenza nei paesi più “difficili”, un team competente in crisis management e sviluppare un business continuity plan per poter gestire eventuali situazioni di emergenza. Contro il rischio sanitario – senza considerare il particolare momento storico pandemico – il datore di lavoro deve prevedere una gestione a priori, con l’obbligo di profilassi e vaccinazioni necessarie e con la verifica dei servizi sanitari di cui fruire in caso di necessità. Quest’ultimo aspetto è molto delicato, perché molti paesi – in certe latitudini – non dispongono di strutture sanitarie efficienti in grado di far fronte a eventuali emergenze, per cui anche il più piccolo e banale infortunio o malore potrebbe avere conseguenze molto gravi.
Un altro aspetto cui fare attenzione sono le calamità naturali e gli eventi metereologici estremi, dato che inevitabilmente impattano sull’attività lavorativa e sugli spostamenti del personale. Per il clima, invece, va considerato il cosiddetto “rischio differenziale”, quello cioè che deriva dall’eccessiva difformità tra condizione italiana ed estera, anche in relazione alla stagione in cui è prevista la trasferta. Tra gli altri fattori di rischio vanno considerate le condizioni ambientali (inquinamento, alimentazione, igiene) che a lungo termine possono impattare sulla salute del lavoratore e la facilità delle comunicazioni che, come la mobilità, in alcuni paesi potrebbero essere davvero difficili. L’utilizzo di mezzi di trasporto non completamente affidabili o infrastrutture carenti, oppure il noleggio di una vettura – anche con conducente – possono comportare rischi che vanno preventivamente considerati in termini di attività lavorative, di tempo libero e di spostamenti.
La sentenza Bonatti: un caso esemplare
Oggi è chiaro a tutti che il datore di lavoro deve rispondere totalmente per i danni subiti dal lavoratore, laddove non siano state predisposte adeguate misure di sicurezza al fine di prevenire i rischi di infortunio e malattia. Ma, fino a poco tempo fa, il concetto era confinato in un ambito prettamente civilistico. Recentemente, invece, è stata modificata l’interpretazione della responsabilità in capo al datore di lavoro alla luce dell’articolo 589 del Codice penale (omicidio colposo). La responsabilità in caso di trasferta estera ha subito una forte accelerata con l’emanazione della Sentenza n. 125 del gennaio 2019, da parte del GUP del Tribunale di Roma (proc. pen. n. 4494/16 RGNR), che ha modificato totalmente la materia. I fatti si riferiscono a un evento del 2015, quando quattro tecnici della società Bonatti, operante nel comparto oil and gas, vennero sequestrati in Libia; durante la liberazione, un anno dopo, due di questi finirono uccisi. I dirigenti vennero indagati per omicidio colposo, con l’accusa di non aver adottato le dovute cautele e il processo si concluse con la condanna dei membri del CdA e del dirigente della branch estera. Secondo l’Ufficio del PM, la società – per il tramite dei suoi dirigenti – non avrebbe adottato tutte le misure di sicurezza, realizzando una mancanza di tutela e di presidio e, violando la normativa, non avrebbe garantito l’integrità fisica e della personalità morale dei lavoratori.
Cosa cambia con la Sentenza n. 125? La novità riguarda la responsabilità penale in capo al CdA e alla stessa società, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, con un operato nell’interesse dell’azienda, attraverso un indiretto profitto, corrispondente al “risparmio” in sicurezza. Fino a quel momento, nessuna Corte aveva introdotto tale fattispecie, prevedendo solo un risarcimento economico del datore di lavoro in favore delle famiglie delle vittime, come conseguenza di eventi criminali o terroristici, operati da terzi, anche al di fuori dell’ambito strettamente lavorativo.
Con la sentenza Bonatti, invece, si introduce il concetto di tutela nei confronti del lavoratore per avvenimenti verificatisi all’estero e causati da condotte delittuose operate da terzi, non ricollegabili in maniera diretta all’attività aziendale. Entra in gioco anche la responsabilità amministrativa da reato dell’ente, nel cui “interesse o vantaggio” il reato sarebbe stato commesso. Per la prima volta i dirigenti sono stati accusati di omicidio colposo aggravato dalla violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Secondo la Corte giudicante, il Tribunale di Roma, gli avvenimenti e le condotte sarebbero state prevedibili alla luce del contesto sociopolitico e della rischiosità del paese Libia in quel momento storico politico. Non bastava solo l’obbligo di studio a priori della pericolosità della trasferta e l’adozione di tutte le misure idonee a evitare e ridurre il rischio; bisognava prevedere l’imprevedibile e, soprattutto, non ignorare le indicazioni (del Ministero degli Affari Esteri, tra le varie voci) secondo cui il trasferimento dei dipendenti andava effettuato via mare o via aerea e non via terra, situazione rischiosa che provocò il sequestro e la morte dei tecnici. Su tutto si erge l’articolo 40 del Codice penale, secondo cui “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. E, infine, la sentenza introduce l’istituto della “cooperazione colposa nel delitto doloso”, una fattispecie giuridica innovativa perché non prevista espressamente dal Codice penale, ma che ora diventa fonte del diritto e potrà essere applicata anche dalle altre Corti italiane.
Riflessioni conclusive
Alla luce degli ultimi eventi, e in considerazione della sentenza Bonatti, ci si è resi conto che oggi non basta più il primo livello di tutela, cioè formazione, informazione e gestione in loco, ma si rende necessaria la predisposizione di uno “scenario maximo”, attraverso un piano di intervento preciso nel caso di qualsiasi necessità, anche difficilmente ipotizzabile. Un simile approccio, però, ha un costo: formazione ex ante, monitoraggio durante la permanenza, con possibile azione repentina di intervento, diventano fattori rilevanti nel bilancio di una PMI, soprattutto oggi. D’altra parte, questa tutela, se non ottemperata diventa indirettamente un risparmio, che quindi viene considerato un profitto per l’azienda, perseguibile secondo il D.Lgs. 231. Come si ovvia a questa dicotomia? Non si ovvia, ma si può agire per ottimizzare le spese.
Le grandi aziende già si avvalgono di esperti in materia, in grado di eseguire le specifiche valutazioni dei rischi afferenti alla sfera della security del paese target, analizzando tutti gli aspetti criminosi, terroristici, sociopolitici e culturali. Le piccole imprese, invece, non lo fanno, principalmente per una questione economica. In alternativa, potrebbero pensare a un documento di valutazione del rischio (DVR) una tantum per una serie di paesi, attraverso il quale poter coprire anche in buona parte la formazione/informazione, con procedure riviste annualmente, tenendo conto delle situazioni politiche e globali eventualmente mutate. Se le collaborazioni con consulenti esterni e professionisti del settore rappresentano un costo, che in questo momento molte aziende non possono affrontare, potrebbero però risultare più convenienti rispetto a un risarcimento in sede giudiziaria. Basterebbe poco per essere in linea con le normative di tutela e, attraverso una spesa minima, evitare – nella peggiore delle ipotesi – un ingente esborso successivo, in sede procedurale, tra risarcimento danni e parcella del difensore legale. Pertanto, si facciano le giuste valutazioni a riguardo, soppesando fattori e costi.