Nearshoring o friendshoring. Qual è la scelta giusta?

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È un dato di fatto che dallo scoppio della pandemia di Covid-19 le supply chain globali siano tenute sotto scacco da criticità logistiche, dalla difficoltà a reperire materie prime e dai relativi aumenti di costo iperbolici. Se aggiungiamo i problemi geopolitici legati prima alla Brexit e ai negoziati su dazi e misure di politica commerciale, poi alla stretta su altri beni fondamentali per l’industria imposta dal conflitto tra Russia e Ucraina, riusciamo a comprendere le ragioni che portano il reshoring a scalare rapidamente le priorità nelle agende dei CEO.

Riportare la produzione nei confini, però, non è un’idea innescata dalla congiuntura del momento, ma una tendenza a riorganizzare i processi industriali cominciata in sordina già prima del 2020. Secondo il Centro Studi Confindustria, infatti, negli ultimi vent’anni le aziende europee che hanno optato per la rilocalizzazione in patria sono circa 850, con Italia e Francia a fare da capofila. La maggior parte di queste realtà produceva in Asia, circa il 42%, e in misura di poco inferiore in altri paesi dell’Europa orientale.

Il reshoring, tuttavia, non è sempre un’operazione indolore, perché in alcuni casi replicare le infrastrutture tecnologiche richiede uno sforzo economico difficile da sostenere. Una delle alternative diventa quindi il friendshoring, suggerito dal segretario al Tesoro americano Janet Yellen in occasione dell’ultimo vertice del G20. Il concetto, radicalmente opposto al credo dell’integrazione internazionale e dell’apertura democratica dei mercati professato dalla globalizzazione, riporta il business nella dimensione più intima del “fare affari tra amici”, cioè tra partner che condividono gli stessi valori e schieramento geopolitico, riducendo al minimo la vulnerabilità agli attacchi economici di paesi rivali.

È la strategia che hanno messo in atto alcune realtà statunitensi, tra cui il colosso Apple, che sta rilocalizzando alcuni passaggi della propria filiera produttiva dalla Cina verso paesi come Taiwan, India e Vietnam. Un altro esempio è Intel, che ha deciso di avvicinarsi all’Europa investendo circa 80 miliardi di euro nei prossimi dieci anni lungo tutta la filiera dei semiconduttori.

La parola chiave di questa nuova logica è affidabilità. E la forte dipendenza dal gas russo ha recentemente evidenziato la vitale importanza di questo aspetto. Una riorganizzazione competitiva, stabile e duratura non può prescindere da relazioni salde quanto sicure, merce rara in alcuni quadranti del mondo.

Per questa ragione, un altro concetto che si sta affermando è nearshoring, cioè la rilocalizzazione in un paese vicino al mercato nazionale, in grado di offrire infrastrutture e manodopera economicamente e tecnologicamente vantaggiose.

Secondo un rapporto di Allianz, su circa 1.200 multinazionali con sede in Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito e Italia “meno del 15% starebbe considerando la possibilità di riportare la produzione nel paese di origine, mentre circa il doppio potrebbe rilocalizzare alcuni impianti in paesi limitrofi”. Le motivazioni della decisione ruotano intorno a fattori ormai noti, tra cui l’aumento degli stipendi all’estero e l’incremento delle spese associate alla merce venduta, ma anche la scarsa tutela della proprietà intellettuale e della tecnologia in alcuni paesi, le guerre commerciali e l’innalzamento dei dazi, per non parlare delle consegne personalizzate e garantite il giorno dopo – una delle ultime tendenze – o delle sempre maggiori pressioni esercitate a favore della sostenibilità.

Anche se quasi certamente non assisteremo a grandi stravolgimenti nell’immediato, è indubbio che le dinamiche del mercato stanno cambiando, evolvendo verso una nuova dimensione, una sorta di nuovo protezionismo. Alcuni sono convinti che l’era della globalizzazione sia giunta al termine, altri ritengono che si tratti solo di un ripensamento delle strategie di business a vantaggio di un’industria più snella, stabile e resiliente.

È ancora troppo presto per scrivere il finale della storia, ma è innegabile che concetti come “filiere locali” e “Made in”, sinonimi di qualità, siano sempre più apprezzati anche dai consumatori e che in futuro potrebbero rivelare nuove e interessanti opportunità ancora tutte da scoprire.


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