Plastiche per il medicale: vitali e innovative

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Da qui al 2029 il comparto è destinato a mettere a segno una crescita del 6% annuo, arrivando a superare i 35 miliardi di dollari di fatturato a livello globale rispetto ai 23,32 miliardi del 2020. Grazie anche all’innovazione e alla ricerca nel campo dei nuovi materiali destinati alla medicina rigenerativa. Con l’aiuto del 3D bioprinting

di Nadia Anzani

Quello delle materie plastiche in ambito medicale è un segmento di mercato in rapida ascesa, come evidenzia anche il rapporto redatto dalla società Exactitude Consultancy, in base al quale, da qui al 2029, è attesa una crescita del 6% all’anno, per un fatturato che dovrebbe superare i 35 miliardi di dollari a livello globale, rispetto ai 23,32 miliardi del 2020. Un’espansione dovuta a diversi fattori, tra i quali la crescente domanda di dispositivi e attrezzature mediche legata a doppio filo all’aumento delle malattie croniche e all’invecchiamento della popolazione.

Durevoli, robusti, resistenti agli agenti chimici e al calore, i polimeri e i compositi rinforzati hanno ormai quasi completamente soppiantato materiali come la ceramica e il metallo nella realizzazione di vari dispositivi medici. Alcuni di essi mostrano addirittura un comportamento meccanico in grado di rivaleggiare con quello dei metalli. Basti pensare ad alcune poliammidi, la cui resistenza a trazione può sfiorare i 90 MPa, o al PEEK (polieteroeterochetone), che può raggiungere il valore di 100 MPa.

In più le materie plastiche hanno costi spesso contenuti: caratteristica non trascurabile in un mercato sempre più attento a mettere in equilibrio costi e qualità di produzione. Molto apprezzata è anche la loro elevata lavorabilità e compatibilità con diversi processi produttivi, oltre alla loro riciclabilità o biodegradabilità. La crescente domanda di plastiche biodegradabili, infatti, sta influenzando positivamente il mercato, perché degradandosi più rapidamente rispetto a quelle convenzionali, diventano un sostituto ideale per applicazioni mediche, come dispositivi monouso, imballaggi e dispositivi medici.

A ogni uso il suo polimero

Fig. 1 – Andamento del mercato della plastica per il medicale dal 2020 al 2029 (miliardi di dollari, fonte: Report Exactitude Consultancy)

Diversi i polimeri utilizzati in campo medicale, ognuno dei quali in grado di soddisfare esigenze differenti. Il policarbonato (PC), per esempio, per le sue caratteristiche di robustezza, resistenza, e trasparenza, è spesso utilizzato in apparecchiature e dispositivi medici che necessitano di sterilizzazione ad alta pressione, come ossigenatori del sangue e sistemi di filtrazione, ma anche per realizzare applicazioni che richiedono grande robustezza e resistenza agli urti, inclusi strumenti chirurgici e diagnostici.

Il PVC, invece, per la sua convenienza, adattabilità e semplicità di produzione è impiegato per la produzione di cateteri, tubi e sacche per sangue. Mentre il polistirene (PS), polimero termoplastico economico e semplice da produrre, è utilizzato per articoli da laboratorio, strumenti diagnostici e forniture mediche usa e getta. Una varietà di articoli medici, inclusi teli chirurgici, imballaggi e tubi, sono poi realizzati in polietilene (PE) grazie alle sue caratteristiche di flessibilità e leggerezza. Siringhe, sacche per flebo, imballaggi medici e dispositivi di protezione individuale (come i camici usa e getta e le mascherine rese famose dalla pandemia), sono praticamente tutti fabbricati in polipropilene (PP).

A questi si aggiungono poi i siliconi che, grazie alla loro biocompatibilità, flessibilità, tenacità e resistenza al calore sono spesso usati per cateteri, maschere respiratorie, tubi e rivestimenti per dispositivi medici.

La cosiddetta plastica medica globale (resine acriliche, poliuretano, silicone e polietilene) è anche ampiamente utilizzata per la produzione di protesi, come arti artificiali o parti del corpo mancanti o danneggiate. Si tratta di plastiche biocompatibili che, oltre ad avere una lunga durata, possono anche essere modellate in forme e design complessi.

L’innovazione c’è

La cosiddetta plastica medica globale (acrilici, poliuretano, silicone e polietilene) viene utilizzata per applicazioni che vanno dal packaging farmaceutico alla produzione di protesi (foto: AdobeStock)

Nel campo dei materiali plastici per il medicale l’innovazione è da sempre la leva che guida e spinge il mercato. «In questo momento molti istituti di ricerca sono concentrati sullo studio di materiali destinati alla medicina rigenerativa, nuova tendenza ed evoluzione della medicina riparativa», spiega Marinella Levi, professore ordinario al Politecnico di Milano e direttore del Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “Giulio Natta” (DCMIC), nonché responsabile del Laboratorio +LAB, che da oltre 10 anni si occupa di sviluppare nuovi materiali per la stampa 3D. «Negli ultimi anni, i materiali per l’ingegneria dei tessuti e per la medicina rigenerativa hanno preso il sopravvento anche  grazie all’utilizzo del 3D bioprinting, un insieme di tecnologie che consentono di riprodurre tessuti e organi grazie al contemporaneo utilizzo di materiali per lo più polimerici e di cellule».

La sinergia tra stampa 3D e applicazioni medicali ha generato un’intensa attività di ricerca nel mondo e sta portando il valore del mercato ad accelerazioni non comuni. Basti dire che il mercato dei biomateriali a livello globale nel 2020 valeva circa 120 miliardi di dollari, ma da qui al 2029 si prevede un tasso di crescita annuo del 12,5%, fino ad arrivare a 355 miliardi di dollari di fatturato. «E a trascinare questo segmento di mercato sarà anche e soprattutto il mondo dell’ingegneria dei tessuti, con particolare riferimento alla medicina riparativa e rigenerativa», dichiara Levi.

Il futuro dei materiali è qui!

Fig. 2 – Il mercato della plastica medicale suddiviso per aree geografiche (fonte: Report Exactitude Consultancy)

A oggi, i materiali che utilizzati per il 3D bioprinting sono spesso idrogeli, ovvero materiali polimerici che, opportunamente dispersi in acqua e reticolati, hanno la caratteristica di rigonfiare anche decine di volte rispetto al proprio peso, il che consente e facilita la semina, la crescita e la proliferazione di cellule al loro interno. «Possono essere classificati in due categorie principali: naturali e sintetici», prosegue Levi. «Tra quelli naturali più famosi troviamo: alginato, agarosio, collagene, acido ialuronico e fibrina, tutti polimeri di origini naturale che possono essere trasformati in idrogeli, favorendo la proliferazione di cellule, anche e soprattutto staminali.

Tra i materiali sintetici che meglio si adattano alla 3D bioprinting, invece, c’è il polietilenglicole (PEG), che ha la caratteristica di poter essere ben controllato nella lunghezza, consentendo per esempio di ottenere idrogeli con proprietà meccaniche differenziate e specifiche per cellule diverse e applicazioni differenti. L’altro materiale molto utilizzato in questo contesto è la GelMA: una gelatina di origine animale (spesso suina), che viene dai polimeristi funzionalizzata con gruppi metacrilati per rendere le sue proprietà più versatili e fare in modo di creare un ambiente più stabile e migliore per la proliferazione cellulare. Si tratta di materiali caratterizzati da un valore aggiunto molto elevato perché hanno costi contenuti per l’acquisizione delle materie prime, anche se per raggiungere le certificazioni e gli standard di purezza necessari per la loro commercializzazione possono richiedere altresì investimenti importanti e tempi per la commercializzazione che possono richiedere anni».

Quando la ricerca aiuta la medicina

La sinergia tra stampa 3D e applicazioni medicali ha generato un’intensa attività di ricerca (foto: AdobeStock)

Materiali innovativi con cui si possono realizzare progetti avveniristici in ambito medicale, soprattutto negli Stati Uniti e sui mercati asiatici, ma anche l’Italia ha le sue eccellenze. Non solo a livello di aziende storiche, come quelle che hanno sede nelle province di Modena e Reggio Emilia, diventate ormai un punto di riferimento mondiale per il livello di qualità raggiunta nella realizzazione di polimeri per il medicale, ma anche a livello di progetti e start-up di matrice universitaria.

Ne è un esempio 3D.Fetoprint, progetto seguito da un gruppo di ricercatori del DCMIC, guidati da Alessandro Pellegata, ricercatore del Politecnico di Milano, che ha l’obiettivo di dare vita a una cura innovativa per il trattamento della spina bifida grazie all’utilizzo di un gel di cellule staminali e una stampante 3D bio miniaturizzata, in grado di intervenire in-situ direttamente sul feto (tramite tecniche fetoscopiche comunemente usate per motivi diagnostici), realizzando tessuti microscopici a base di speciali cellule staminali, provenienti dal fluido amniotico in cui il feto sta crescendo. Il progetto, sviluppato in collaborazione con le università UCL di Londra e KU di Leuven, è stato recentemente premiato con un Consolidator Grant da due milioni di euro dal Consiglio Europeo della Ricerca (ERC).

Spin off e… spin off

Un altro caso interessante è quello di MOAB, spin off del Politecnico di Milano che commercializza nicchioidi per la ricerca avanzata sulle cellule staminali umane. Il progetto è realizzato in collaborazione con Iesl Forth (Institute of electronic structure and laser of Foundation for research and technology Hellas), ed è coordinato da Manuela Raimondi, professore ordinario di Bioingegneria presso il DCMIC. L’idea originale è stata quella di sintetizzare fotopolimeri per realizzare microstrutture (nicchioidi che imitano il microambiente dove risiedono le cellule staminali nel tessuto umano), attraverso la polimerizzazione a due fotoni per impieghi nella coltura di cellule staminali a scopo terapeutico. Progetto pluripremiato dalla Commissione Europea, che ha portato prima al brevetto dell’idea e nel 2020 alla costituzione della start up.

C’è poi Bac3gel, un altro spin off del Politecnico di Milano guidato da Paola Petrini, docente del DCMIC che, in collaborazione con le Università di Torino e di Pavia, ha brevettato un materiale polimerico d’origine naturale (polisaccaridi e proteine) le cui caratteristiche si possono adattare all’alloggiamento di diverse specie batteriche. In pratica, una tecnica evoluta per coltivare batteri.

Hi Fiber è invece un brevetto messo a punto da un gruppo di ricerca guidato da Marinella Levi, che ha dato vita a Moi Dental, spin off del Politecnico di Milano che progetta e stampa in 3D (con una tecnologia robotica assistita da raggi UV) un composito rinforzato con fibra di vetro continua per la realizzazione di protesi dentali personalizzate. Queste ultime sono realizzate sulla base della scansione del cavo orale del paziente, trasformata in meno di 24 ore in un rinforzo dentale con caratteristiche del tutto affini a quelle dell’osso umano.

(Articolo tratto dalla rivista Plastix n. 6, settembre 2024)


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