Esplorando i polimeri: il polivinilcloruro

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Il PVC è noto per la sua estrema versatilità: da materiale duro e rigido per serramenti a plastica morbida ed elastica per le pellicole colorate usate nel wrapping delle auto. Qual è il segreto dietro queste proprietà così contrastanti?

Il polivinilcloruro, comunemente noto come PVC, è un polimero sintetico ottenuto da monomeri di cloruro di vinile. Si è diffuso grazie alla sua eccezionale versatilità, durata ed economicità. Questo materiale termoplastico può essere rigido o flessibile, il che lo rende adatto a varie applicazioni in vari settori. Il PVC è anche noto per le sue eccellenti proprietà di resistenza chimica, isolamento elettrico e autoestinguenza, che lo rendono una scelta ottimale nella produzione di tubi, cavi, profili per finestre e dispositivi medici come sacche per il sangue, tubi e contenitori per soluzioni saline.

La sua catena principale è costituita da gruppi vinilici (CH2=CH-) legati ad atomi di cloro ripetuti (figura 1a). L’atomo di cloro, presente soprattutto nel sale da cucina (di origine marina o rocciosa), è molto abbondante e facile da estrarre, quindi disponibile ed economico. È un atomo polare molto pesante: quasi tre volte più pesante del carbonio. Per questo motivo il cloro nel PVC rappresenta il 56,8% del peso totale. Pertanto, il PVC è meno influenzato dal costo del petrolio e del gas naturale rispetto ad altri polimeri.

Fig. 1 – Unità ripetitive del a) cloruro di polivinile (PVC) e del b) cloruro di polivinilidene (PVDC)

La produzione di polimeri clorurati a partire da monomeri clorurati (con uno o più atomi di cloro) sfrutta principalmente tre vantaggi: realizza polimeri economici (la maggior parte del peso è dovuta al cloro), con buone proprietà meccaniche grazie alle elevate forze intermolecolari derivanti dalla polarità dell’atomo di cloro, e può utilizzare varie percentuali di plastificanti. Pertanto, i clorurati costituiscono un’importante classe di polimeri con molte applicazioni commerciali.

Il polimero più importante di questa classe è appunto il cloruro di polivinile (PVC), ottenuto dalla polimerizzazione del cloruro di vinile (VC) CH2=CHCl, uno dei polimeri più prodotti e consumati al mondo. Il suo uso più comune è sotto forma di tubi e raccordi utilizzati nell’edilizia civile per le installazioni idrauliche. Aumentando a due il numero di atomi di cloro legati allo stesso carbonio CH2=CCl2 si ottiene il cloruro di polivinilidene (PVDC), che presenta forze intermolecolari ancora maggiori, rendendolo un’eccellente barriera per gas e vapori (figura 1b).

Dispositivi medici in PVC flessibile

Un altro modo per aumentare il numero di atomi di cloro è la copolimerizzazione del cloruro di vinile (VC) con il dicloroetilene (CHCl=CHCl) per la produzione di PVC clorurato. Sono molto utilizzati anche altri copolimeri, come i copolimeri cloruro di vinile-cloruro di vinilidene (VC/VDC) utilizzati per gli imballaggi, il cloruro di vinile-acetato di vinile (VC/VA), utilizzato per la produzione dei vecchi dischi in vinile, e il cloruro di vinile-acrilonitrile (VC/AN) per le fibre. Tutti questi copolimeri sfruttano una caratteristica specifica del secondo comonomero per una determinata applicazione: il VDC viene utilizzato per le sue caratteristiche di barriera, il VA per la sua fluidità e l’AN per la sua eccellente capacità di orientarsi quando viene sottoposto a deformazione.

Stabilità termica

La stabilità termica del PVC è considerata un problema serio. Se non viene stabilizzato, il PVC si degrada durante la lavorazione. Anche al di sotto del suo punto di fusione, la degradazione termica del PVC provoca la pericolosa emissione di acido cloridrico (HCl), una decolorazione inaccettabile del polimero e un drastico cambiamento delle sue proprietà meccaniche. Questo comportamento è ancora una volta legato alla struttura chimica della molecola e, in particolare, alla presenza dell’atomo di cloro collegato alla catena principale degli atomi di carbonio da un legame covalente.

Il legame chimico covalente è la condivisione di due elettroni tra gli atomi. Nei polimeri determina le forze intramolecolari, cioè la resistenza interna della singola catena molecolare. I legami covalenti comportano solitamente distanze brevi ed energie elevate.

Fig. 2 – Energie di legame e lunghezze di alcuni legami covalenti comuni nei polimeri

La tabella in figura 2 elenca alcuni legami covalenti, la loro lunghezza media di legame e l’energia di legame, che si avvicinano rispettivamente a 1,5 angstrom (Å) e 100 kcal/mol. Nella tabella, il tipo di legame covalente è ordinato rispetto alla sua energia di legame. Il legame singolo C-C è il legame covalente più comune presente nella maggior parte dei polimeri. La catena principale del polietilene è formata esclusivamente da questo tipo di legame. Prendendolo come riferimento, possiamo prevedere la stabilità di qualsiasi polimero rispetto al PE analizzando gli altri legami presenti e confrontandoli con il legame C-C. Valori di energia più bassi indicano legami più instabili e viceversa.

Quando il legame più instabile si trova in un gruppo laterale, la sua rottura può generare la perdita di parte del gruppo laterale, causando la degradazione del polimero. Ciò si verifica nella degradazione del PVC dove, durante il riscaldamento, l’atomo laterale di cloro più instabile se ne va, prendendo l’idrogeno appartenente alla stessa catena e collegato al carbonio più vicino, formando acido cloridrico e lasciando nella catena polimerica un doppio legame C=C.

Durante la degradazione del PVC, la formazione di acido cloridrico autocatalizza l’uscita di altre molecole di HCl, provocando una reazione a cascata che degrada rapidamente l’intero polimero. La presenza di doppi legami C=C alternati nella catena del PVC conferisce una colorazione rossastra al polimero; più scuro è il colore, maggiore è il grado di degradazione. Poiché questa reazione non può essere completamente eliminata, il trattamento termico del PVC richiede l’aggiunta di stabilizzanti termici. Questi riducono notevolmente la reazione di degradazione e consentono la lavorazione del PVC per fusione in modo da poterlo modellare in prodotti commerciali.

Cristallinità

La presenza di un gruppo laterale ingombrante tende ad ancorare la catena polimerica, per cui sono necessari livelli energetici più elevati (cioè temperature più alte) perché la catena diventi mobile. Questo si riflette nell’aumento delle temperature di transizione vetrosa (Tg) e fusione (Tm) del polimero. Inoltre, una compattazione ordinata durante il raffreddamento diventa difficile a causa di questo grande gruppo laterale, che rende difficile la cristallizzazione (si riduce la frazione cristallina) e può addirittura evitarla del tutto.

Fig. 3 – Effetto della dimensione del gruppo laterale su Tg, Tm e grado di cristallinità di alcuni omopolimeri

Ciò può essere osservato confrontando le temperature di transizione presentate da tre polimeri comuni: PE, PVC e PS, come mostrato in figura 3. In quest’ultimo caso, ci riferiamo al PS atattico, che è il polimero più diffuso e conosciuto. Se invece si tratta di PS isotattico o sindiotattico, come discusso nell’articolo precedente, presenterà cristallinità.

Anche diversi fattori esterni alla catena polimerica possono interferire con la sua cristallizzazione, come ad esempio impurità, additivi, o una seconda fase polimerica. Di solito, queste sostanze sono molecole solubili nel polimero fuso, alloggiate tra le catene polimeriche. Durante il raffreddamento e la solidificazione, ostacolano la compattazione regolare, interferendo con la capacità di cristallizzazione del polimero. Dopo la solidificazione, rimangono preferenzialmente disciolti nella fase amorfa, portando così alla riduzione del grado di cristallinità del polimero aggiunto.

Nel caso del PVC, i plastificanti sono molecole miscibili che, una volta aggiunte, riducono a zero la cristallinità nominale, anche se in basse concentrazioni. Il PVC plastificato (PPVC) è amorfo, flessibile e trasparente con un comportamento coriaceo.

Effetto dei plastificanti

La plastificazione è una trasformazione fisica del polimero ottenuta con l’aggiunta di molecole a basso peso molecolare (plastificanti), che sono miscibili nel polimero. La molecola occupa fisicamente uno spazio tra le catene polimeriche, allontanandole l’una dall’altra e, quindi, riducendo le loro forze intermolecolari. Ciò porta alla formazione di una miscela (polimero + plastificante) con una minore resistenza meccanica (riduzione del modulo elastico a trazione, o a flessione, e della durezza) e un maggiore allungamento a rottura, ma con una più alta resistenza all’impatto e facilità di lavorazione.

Fig. 4 – Riduzione del modulo elastico all’aumentare della temperatura per UNPVC (PVC rigido) e PPVC plastificato con 10%, 30% e 50% di ftalato di diottile (DOP)

Un esempio è la plastificazione del PVC con l’aggiunta di ftalato di diottile (DOP), un olio plastificante utilizzato per la produzione commerciale di cloruro di polivinile plastificato (PPVC). La figura 4 mostra i valori del modulo elastico in funzione della temperatura per il PVC contenente DOP in quantità pari a 0, 10, 30 e 50%. A temperatura ambiente, il modulo elastico del PVC puro si riduce fino a tre ordini di grandezza con l’aggiunta del 50% di plastificante DOP. La plastificazione provoca anche una marcata riduzione della temperatura di transizione vetrosa, che parte da 80°C per il PVC rigido (non plastificato, UNPVC) e scende a 60°C, 10°C e addirittura a -30°C quando la concentrazione di plastificante viene aumentata rispettivamente al 10%, 30% e 50%.

L’uso di plastificanti per PVC permette quindi di ottenere composti con un ampio spettro di proprietà meccaniche, utilizzando la stessa resina di base, conferendo al PVC una grande versatilità e impiego industriale. La storia stessa del PVC testimonia l’enorme importanza dei plastificanti per questo polimero. Sebbene sia noto fin dalla sua prima polimerizzazione, avvenuta nel 1872 ad opera del chimico tedesco Eugen Baumann, il PVC, avendo una stabilità termica molto bassa, ha iniziato il suo utilizzo commerciale solo con la scoperta dei plastificanti da parte di Waldo Lonsbury Semon, nel 1926.

Il valore K

Raramente si vedono valori di melt flow index (MFI) nelle schede tecniche del PVC. Viene invece indicato il cosiddetto valore K, che si riferisce al peso molecolare e quindi, indirettamente, alla fluidità. Ciò è dovuto al fatto che il PVC presenta un’interessante struttura granulare e i granuli di PVC si disintegrano gradualmente solo in presenza di plastificanti. Pertanto, il PVC plastificato è una sorta di miscela microeterogenea. Le proprietà non dipendono solo dalla composizione ma, in molti casi, anche dalla storia termica.

Profili per finestre in PVC rigido

Il valore K è un parametro critico nella produzione del PVC. Si tratta di un valore numerico relativo al peso molecolare medio del polimero di PVC. In sostanza, il valore K riflette la lunghezza della catena del polimero, che ha un impatto significativo sulle proprietà fisiche e meccaniche del materiale. Viene determinato attraverso un preciso processo analitico che prevede la dissoluzione dei campioni di PVC in un solvente adeguato e la successiva misurazione della viscosità intrinseca della soluzione.

Le misurazioni della viscosità della soluzione vengono solitamente effettuate confrontando il tempo di flusso richiesto per il passaggio di un determinato volume di soluzione polimerica attraverso un tubo capillare e il tempo richiesto per il flusso del solvente puro. La viscosità della soluzione polimerica è naturalmente maggiore di quella del solvente puro e quindi il valore del suo tempo di eluizione è più alto. Trattandosi di un esperimento che può essere eseguito rapidamente e che richiede un’attrezzatura semplice, è in pratica uno dei metodi più importanti e meno costosi per determinare il peso molecolare medio del PVC.

Le resine di PVC sono quindi classificate in base al loro valore K:

  • K=70-75. Queste resine ad alto valore K offrono eccellenti proprietà meccaniche, ma possono essere più difficili da lavorare. Richiedono più plastificante per ottenere lo stesso livello di morbidezza. Trovano applicazione nell’isolamento di cavi ad alte prestazioni e nei rivestimenti resistenti per nastri trasportatori e pavimentazioni industriali. Questa categoria è associata a costi più elevati.
  • K=65-68. Le resine a medio valore K sono le più diffuse e raggiungono un buon equilibrio tra proprietà meccaniche e lavorabilità. I prodotti non plastificati (UNPVC) sono in genere realizzati con gradi meno porosi, mentre le applicazioni plastificate beneficiano di gradi più porosi. Questa categoria soddisfa la maggior parte delle applicazioni in PVC e ha prezzi competitivi grazie all’elevato volume prodotto.
  • K=58-60. Le resine a basso valore K presentano le caratteristiche di lavorazione più semplici, sebbene le loro proprietà meccaniche siano relativamente inferiori. Sono comunemente utilizzate in applicazioni difficili, come lo stampaggio a iniezione, il soffiaggio e i film trasparenti per imballaggio. I prezzi di questa gamma sono più alti rispetto alle resine a medio valore K.
  • K=50-55. Resine speciali, studiate su misura per applicazioni specifiche ed esigenti. Vengono utilizzate in applicazioni particolari, come i separatori nelle batterie. La lavorazione di queste resine è più agevole.

Giovanni Lucchetta, Università di Padova (da rivista Plastix n. 5, giugno 2024)


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