Esplorando i polimeri: il polipropilene

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Prosegue il viaggio nel vasto e variegato mondo dei polimeri, che ci porterà alla scoperta delle proprietà uniche di ogni materiale, delle sue applicazioni specifiche, delle tecniche di lavorazione e delle possibilità di riciclo. In questa seconda puntata, pubblicata sulla rivista Plastix di aprile 2024, si parla del polipropilene.

Il polipropilene (PP) è uno dei polimeri più versatili e utilizzati nel mondo, con una storia e delle applicazioni che potrebbero sorprendere anche i più esperti nel campo delle materie plastiche. La sua scoperta nel 1954, ad opera dei chimici Giulio Natta e Karl Rehn, ha aperto le porte a una rivoluzione nel settore dei materiali sintetici, grazie alla sua straordinaria capacità di adattarsi a un’ampia varietà di applicazioni, dalla semplice confezione alimentare fino ai componenti ad alte prestazioni per l’industria automobilistica e dell’elettrodomestico.

Dai primi successi a un predominio in continua crescita

Fig. 1 – Distribuzione della domanda di materie plastiche per lo stampaggio a iniezione suddivisa per tipologia, in Europa nel 2021 (fonte: Ceresana)

Ciò che veramente distingue il polipropilene e lo rende un materiale singolare è la sua incredibile processabilità e capacità di riciclo. Non solo offre una delle migliori soluzioni di compromesso tra proprietà meccaniche e costo, ma può essere riprocessato e riutilizzato molteplici volte senza alcun degrado significativo. Sono state proprio la facilità e l’economicità di lavorazione le chiavi del successo del primo polipropilene commerciale (il famoso Moplen), introdotto dall’azienda italiana Montecatini nel 1957. All’epoca non era necessario avere un’educazione tecnica specifica per stampare il polipropilene (è uno dei materiali più semplici da stampare ancora oggi) e, in ogni caso, se si fossero commessi errori, si sarebbe potuto sempre ricorrere al granulatore per macinare gli scarti e riciclarli in produzione.

Durante gli Anni Cinquanta e Sessanta, l’Italia ebbe un rapido sviluppo industriale, spostandosi da un’economia prevalentemente agricola a una maggiormente industrializzata e tecnologicamente avanzata. Per dirla in modo un po’ più colorito, “si sfrattarono le mucche dalle stalle per far posto ai macchinari”: non solo telai e torni, ma anche estrusori e presse per lo stampaggio. Il polipropilene, essendo un materiale economico e facile da lavorare, trovò largo impiego per produrre un’ampia varietà di beni di consumo e industriali, contribuendo all’espansione dell’industria manifatturiera italiana.

Se oggi il nostro settore è così sviluppato in Italia, lo dobbiamo probabilmente a Giulio Natta, al suo essere al contempo scienziato di prima grandezza e campione nell’innovazione e nel trasferimento tecnologico. Vinse il premio Nobel per la chimica nel 1963 (ancora oggi, l’unico italiano in questa disciplina). Solo un anno prima, grazie a molti dei suoi numerosissimi brevetti, Montecatini aveva raggiunto la produzione di 250 mila t/anno di polipropilene.

La figura 1 illustra in modo eloquente la supremazia del polipropilene nel panorama europeo delle materie plastiche destinate allo stampaggio a iniezione: nel 2021, il polipropilene ha rappresentato il 44% della domanda totale. Questa preferenza dominante non è casuale, ma si fonda su parametri tecnici ben definiti, che sottolineano le sue qualità superiori rispetto ad altri polimeri.

In particolare, nella progettazione meccanica di beni di consumo, si selezionano i materiali cercando di massimizzare il rapporto tra la rigidità (rappresentata dal modulo elastico, E) e il costo del materiale. A sua volta, il costo di un materiale plastico è legato al suo peso, ovvero alla massa di materiale prodotto a partire dalla materia prima (petrolio). Non è un caso che, per le plastiche maggiormente prodotte al mondo (vedi figura 2), questo costo oscilli negli ultimi anni attorno al valore di 1,1 dollari/kg. Al di là delle differenze legate al costo energetico intrinseco nella produzione di ciascun polimero, il singolo fattore che contribuisce maggiormente a ridurne il costo è l’economia di scala. Fin qui, quindi, non sembra esserci ancora alcun motivo per preferire il PP al PE, al PVC o al PET.

Fig. 2 – Distribuzione della produzione globale di materie plastiche nel 2021 per tipologia (fonte: Plastics Europe)

Occorre notare, però, che nella progettazione meccanica si dimensiona un oggetto affinché risponda ai requisiti strutturali. Questo “dimensionamento”, che per gli oggetti in plastica significa prevalentemente modifica dello spessore, fa leva sul volume dell’oggetto e non sul suo peso. La proprietà fisica che disaccoppia il volume dalla massa, la densità r, ci permette quindi di identificare il polimero più conveniente, scegliendo quello che presenta il più alto valore del rapporto E/r .

A questo punto, il lettore avrà già capito che si tratta proprio del polipropilene, dato che, a fronte di un modulo di valore medio tra le termoplastiche (tra i 1300 e 1800 MPa), presenta la più bassa densità tra tutte le plastiche commodity (tra 0,895 e 0,93 g/cm3).

Questa proprietà, abbinata alla facilità di lavorazione e alla versatilità del materiale, conferisce al polipropilene un ruolo centrale nell’industria delle materie plastiche e giustifica la sua posizione preminente nel mercato. Inoltre, l’adozione del PP permette di ottenere componenti più leggeri, con evidenti vantaggi soprattutto nelle applicazioni per l’automotive, dove la riduzione di peso si traduce in minori consumi ed emissioni (per le auto tradizionali) e maggiore autonomia (per le auto elettriche).

Le proprietà discendono dalla struttura molecolare

Fig. 3 – La struttura ripetitiva del polipropilene con il gruppo laterale metilico CH3

Così come abbiamo visto per il polietilene nel precedente articolo (vedi: https://www.plastix.it/esplorando-i-polimeri-il-polietilene/, ndr), possiamo analizzare la struttura molecolare del polipropilene per comprenderne le proprietà fisiche e meccaniche. A differenza del polietilene, dove tutti i gruppi laterali attaccati alla dorsale di carbonio sono atomi di idrogeno, nella catena del polipropilene ogni unità di propilene contiene tre atomi di idrogeno e un gruppo metilico molto più grande, come illustrato in figura 3.

Questa differenza strutturale rispetto al polietilene, che non ha gruppi metilici laterali, aumenta l’intensità delle forze intermolecolari (cioè l’attrazione tra una catena e l’altra) e ciò conferisce al polipropilene una maggiore resistenza e una più elevata temperatura di fusione (160°C per il PP contro i circa 130°C dell’HDPE).

Vale la pena ricordare che i materiali polimerici sono caratterizzati da due tipi di legami:

  • i legami primari, o intramolecolari, sono di natura covalente e legano tutti gli atomi appartenenti alla stessa catena molecolare (i tratti che connettono gli atomi di carbonio e quelli di idrogeno in figura 3);
  • i legami secondari, o intermolecolari, possono essere di diversa natura, a seconda del polimero (ad es. di dispersione, dipolo-dipolo, legami a idrogeno) e rappresentano l’attrazione coesiva tra le catene molecolari.
Fig. 4 – Tatticità del polipropilene

I legami secondari hanno un’intensità che è inferiore a quella dei legami covalenti di circa due ordini di grandezza. Rappresentano quindi il punto debole dei materiali polimerici. Li possiamo rafforzare favorendo la naturale tendenza delle catene a impigliarsi tra di loro (entanglement) quando si aumenta la loro lunghezza (il peso molecolare). Ma una strategia ancora più efficace consiste nel modificare la composizione chimica dell’unità ripetitiva, appendendo lateralmente gruppi che possano intensificare i legami secondari, proprio come nel caso del PP.

Ai più attenti non sarà sfuggito che nella figura 3 il gruppo metilico è appeso sempre dalla stessa parte della catena. In realtà, le diverse strutture che si possono creare polimerizzando il polipropilene sono tre e sono rappresentate in figura 4 con i nomi coniati in modo molto appropriato da Rosita Beati, la moglie di Giulio Natta, all’epoca della loro scoperta. Le prime due strutture sono stereoregolari (PP isotattico e sindiotattico), mentre la terza, che non possiede alcuna regolarità è quella del PP atattico.

Per comprendere l’enorme importanza della stereoregolarità nel PP spieghiamo prima cosa accade quando un polimero allo stato fuso viene raffreddato, per esempio all’interno di uno stampo.

Cristallinità dei polimeri 

Fig. 5 – Ripiegamento delle catene molecolari a formare cristalli lamellari

La maggior parte dei materiali che conosciamo è composta da molecole piccole e il loro comportamento al variare della temperatura può essere descritto con i tre stati di aggregazione della materia che abbiamo studiato a scuola: solido, liquido e aeriforme.

Nel solido troviamo le molecole (o gli atomi) disposti in maniera ordinata e compatta, secondo una struttura che chiamiamo cristallina. La vicinanza tra le molecole, garantita da questo ordine a lungo raggio, fa sì che le interazioni siano massime e i materiali (allo stato solido) presentino elevata resistenza e rigidità.

Se forniamo sufficiente energia a questi solidi sotto forma di calore, la loro temperatura aumenterà fino al punto in cui l’energia fornita sarà sufficiente per distruggere la struttura cristallina che caratterizzava il solido. Il liquido ottenuto presenterà quindi molecole disposte casualmente e più lontane le une dalle altre. La struttura dei liquidi si dice quindi amorfa. Se poi alzassimo ancora la temperatura porteremmo il liquido allo stato di vapore, come ben sappiamo.

Tutto questo non vale per i polimeri.

Fig. 6 – Schema bidimensionale di un polimero amorfo

I polimeri sono costituiti da molecole di grandi dimensioni, con forze intermolecolari elevate e catene aggrovigliate. La lunghezza delle molecole polimeriche rende difficile la formazione dei grandi cristalli presenti nelle fasi solide della maggior parte degli altri materiali. In altre parole, a temperatura ambiente i polimeri non possono essere completamente cristallini. Alcuni riescono a cristallizzare parzialmente, e per questo vengono chiamati semicristallini, altri per niente, e rimangono quindi allo stato amorfo. Ma come fa una catena polimerica ad assumere una disposizione ordinata se conta migliaia di unità ripetitive? Le catene polimeriche regolari possono ripiegarsi su loro stesse per formare cristalli lamellari aventi uno spessore di 10-20 nm, in cui le catene parallele (mostrate in colori diversi nella struttura simulata in figura 5) sono perpendicolari alla faccia del cristallo

Per contro, le catene polimeriche che presentano ramificazioni o gruppi laterali disposti irregolarmente non possono ripiegarsi in modo abbastanza regolare da formare cristalli e rimangono allo stato amorfo anche a temperatura ambiente (figura 6).

Quando un polimero semicristallino fuso si raffredda, i cristalli si sviluppano da singoli nuclei e si irradiano come i raggi di una ruota di bicicletta, come illustrato in figura 7. Le porzioni cristalline si irradiano in realtà in tre dimensioni, formando sfere chiamate sferuliti. In un campione di polimero semicristallino ci sono miliardi di sferuliti.

Fig. 7 – Schema bidimensionale di un polimero semicristallino

I polimeri semicristallini presentano quindi sia regioni cristalline che amorfe. La semicristallinità è una proprietà desiderabile per la maggior parte delle materie plastiche, perché combina la forza dei polimeri cristallini con la flessibilità di quelli amorfi. I polimeri semicristallini possono essere resistenti e in grado di piegarsi senza rompersi.

Nel caso del polipropilene, la struttura isotattica permette alle molecole di ripiegarsi a elica e di cristallizzare in un materiale resistente e relativamente rigido che, nella sua forma pura, fonde a 167°C. Anche il polipropilene sindiotattico, grazie alla sua struttura regolare, è semicristallino.

Le catene atattiche, invece, hanno una struttura completamente casuale e di conseguenza non cristallizzano, ma si presentano come un materiale simile alla gomma. Il polipropilene commerciale che siamo soliti apprezzare è un polimero prevalentemente isotattico, contenente solo l’1-5% in massa di materiale atattico.

Giovanni Lucchetta, Università di Padova


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