Le ricerche di un team guidato dal professor Andrea Pompa dell’Università di Urbino hanno portato alla scoperta di un nuovo biomateriale a base proteica più resistente della bioplastica presente oggi sul mercato, 100% riciclabile, utilizzabile in diversi campi e per di più… commestibile
Tanta passione e un grande interesse per la scienza e per l’ambiente. Queste le leve che hanno spinto Andrea Pompa, prefetto dell’Orto Botanico di Urbino e docente del Dipartimento di Scienze Biomolecolari dell’ateneo cittadino, a studiare nuovi biopolimeri a base proteica capaci di andare oltre la bioplastica e i suoi problemi di resistenza e di riciclabilità.
«Faccio parte della generazione che ha visto la plastica passare da grande risorsa a uno dei più importanti pericoli per l’ambiente che ci circonda e, di conseguenza per la nostra salute», racconta Andrea Pompa. «Da scienziato mi occupo da anni di biologia e fisiologia vegetale e ho sempre pensato che le piante potessero essere utilizzate come potenziali bioreattori per la produzione di plastiche biodegradabili, il più possibile ecosostenibili».
Intuizione diventata nel tempo un’interessante realtà. Dopo cinque anni di lavoro, infatti, Pompa, con il supporto del CNR di Perugia, del Dipartimento di chimica Giacomo Ciamician dell’Università di Bologna e soprattutto con la collaborazione di un team composto da 11 ricercatori (Francesca De Marchis, Tania Vanzolini, Elisa Maricchiolo, Michele Bellucci, Michele Menotta, Tomas Di Mambro, Annalisa Aluigi, Andrea Zattoni, Barbara Roda, Valentina Marassi, Rita Crinelli), è riuscito a sviluppare il prototipo di una bioplastica a base proteica sostenibile e commestibile. Ricerca che è stata recentemente pubblicata anche sulla prestigiosa rivista internazionale Biotechnology Journal.
Qual è stato il processo che vi ha portato a questo risultato?
Le proteine sono “polimeri intelligenti” con caratteristiche chimico-fisiche eccezionali. Basti pensare alla tela del ragno, che ha una resistenza alla trazione 4-5 volte maggiore rispetto a quella dell’acciaio, oppure alla cheratina presente anche nei nostri capelli, o negli zoccoli degli animali. Nel corso degli anni ho studiato diversi tipi di proteine tra cui quella del fagiolo, che, modificata geneticamente attraverso processi biotecnologici con bioreattori vegetali e batterici, ha dato vita a un nuovo biomateriale in grado di generare catene polimeriche molto lunghe.
Quali bioreattori sono stati usati per produrre il nuovo biomateriale?
Si tratta di due bioreattori differenti, quali le piante di tabacco e i batteri del tipo Escherichia coli. Sia nel primo che nel secondo caso la proteina è stata prodotta correttamente ed è stato possibile sottoporla a “tecniche di plastificazione” che hanno dimostrato la possibilità di farne una bioplastica eco-friendly e potenzialmente edibile.
Può spiegare meglio quest’ultimo aspetto?
È un materiale commestibile nel senso che, di fatto, è una proteina che ingeriamo tutti i giorni quando mangiamo pasta e fagioli. Il nostro materiale è infatti realizzato con la stessa proteina dei fagioli, a cui è stato aggiunto un aminoacido nobile e per questo mangiabile da tutti, uomini e animali.
Oggi il grande problema della plastica è la sua riciclabilità. Tutte le plastiche biodegradabili una volta diventate rifiuti possono essere degradate dall’ambiente, dalla natura. Anche se su questo tema, al momento, sono aperti dibattiti importanti, perché secondo alcuni studiosi pure le bioplastiche attualmente in commercio, costituite da una parte di materiale non biodegradabile che le rende più performanti, producono microplastiche potenzialmente dannose per l’ecosistema.
La bioplastica che abbiamo generato nei nostri laboratori, invece, ha un valore diverso perché non solo si degrada naturalmente, ma può essere anche mangiata da animali e insetti. Se la plastica che oggi invade gli oceani fosse stata realizzata con il materiale che abbiamo prodotto nei nostri laboratori, potrebbe essere ingerita senza alcun problema dai pesci, che così otterrebbero anche il vantaggio di assumere una proteina molto nutriente. Lo stesso potrebbe essere per gli allevamenti animali che attualmente utilizzano prevalentemente la soia come fonte proteica. Insomma, da scarto la bioplastica a base proteica diventa risorsa. Basti dire che se una pianta a forte interesse agronomico come il mais, di cui si utilizza solo la pannocchia, fosse arricchita tramite ingegneria genetica con questa proteina, la sua foglia, oggi inutilizzata, diventerebbe commestibile e quindi potenzialmente utilizzabile come fonte proteica, o come materiale di partenza per l’estrazione di questo biopolimero e, quindi, commercializzabile.
Oltre a questa importante caratteristica, in cos’altro ancora questo nuovo materiale si differenzia dai biopolimeri attualmente presenti sul mercato?
La differenza sostanziale è la base di partenza del polimero. I polimeri sono grandi molecole composte da una unità ripetute, ed è la ripetizione di questa unità che fa scaturire le proprietà fisico-meccaniche del polimero finale. Per esempio, alcuni biopolimeri in circolazione sono fatti di amido, un’unità di zucchero ripetuta all’infinito. Questo significa che il materiale che ne deriva ha le caratteristiche dello zucchero estremizzate. Nel caso delle proteine abbiamo 22 aminoacidi con 22 combinazioni diverse. In più, i biopolimeri oggi disponibili sul mercato hanno un utilizzo limitato perché sono poco resistenti, mentre i polimeri a base proteica possono essere adatti a realizzare più cose.
Dunque a quali usi è destinato?
Pensiamo possa trovare spazio in più settori, da quello degli imballaggi alimentari, a quello del materiale biomedico, in particolare per la realizzazione di compresse a rilascio programmato, o garze di ultima generazione del tipo di quelle a scomparsa programmata. Ma anche per la realizzazione di materiali plastici con proprietà meccaniche particolari, da utilizzare in molti settori industriali. Tutto è possibile, ma è ancora troppo presto per dirlo.
Nel senso che la ricerca è ancora agli inizi?
Diciamo che, con la pubblicazione dell’articolo sul Biotechnology Journal, si è conclusa la fase iniziale dello studio, nel corso della quale abbiamo potuto produrre solo piccole quantità di materiale nei nostri laboratori. Ora il secondo step sarà quello di aumentare i volumi di produzione al minor costo possibile, in modo da potenziare le analisi e scoprire le reali caratteristiche tecniche della bioplastica. Finora abbiamo lavorato su micro caratteristiche chimico-fisiche, verificando che si tratta di un materiale flessibile ed elastico, non solubile in acqua e in grado di far passare i gas, ma siamo ancora agli step embrionali della ricerca.
Avete già avuto manifestazioni d’interesse da parte del mondo industriale?
Si, ci sono stati dei contatti con aziende e società che si occupano del lancio di start up interessate a conoscere meglio il prodotto e le sue caratteristiche, ma nulla di più per ora.
È quindi impossibile fare previsioni su quando entrerà in produzione?
Esatto. Anche perché l’università arriva solo fino a un certo punto con la ricerca. Poi, per entrare nel mondo industriale, è necessario un processo che non ci compete: cosa che spetta alle aziende. Ma, per poter utilizzare il biopolimero a base proteica, le imprese devono essere disposte a cambiare tipo di produzione e macchinari di lavorazione. E questo avverrà solo quando saranno obbligate a farlo per legge.
Anche perché la nostra plastica, nella migliore delle ipotesi, costerà molto di più di quella derivante dal petrolio e, ad oggi, non potrebbe mai competere con quella tradizionale. Per ora ci accontentiamo di fornire idee per far capire che, volendo, le alternative alla plastica di origine fossile ci sono e funzionano. Che poi è il motivo per cui ho scelto questo lavoro.
Nadia Anzani