Il riciclo chimico della plastica è davvero green?

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Nell’agenda globale, lo sviluppo sostenibile è uno dei principali obiettivi per preservare il futuro del pianeta ma, nonostante la sensibilità dei cittadini e delle imprese verso il tema sia notevolmente aumentata, non tutto ciò che viene definito frettolosamente “green” lo è davvero. È quindi indispensabile mantenere un approccio critico per imparare a districarsi dai sensazionalismi del greenwashing, soprattutto quando si va a caccia di affidabilità.

LCA, uno strumento fondamentale

Nel pensare comune, l’economia circolare e l’uso di fonti rinnovabili sono immediatamente associati alla parola “green”. Ma come è possibile comprendere se e quando l’approccio circolare o l’utilizzo di risorse rinnovabili hanno un impatto ambientale effettivamente inferiore all’approccio lineare e all’uso di fonti fossili? Nessuno può rispondere con certezza senza prima aver effettuato un’analisi seria del flusso relativo alla produzione e alla vita di un bene di consumo. Solo per fare un esempio, chiediamoci se per l’ambiente ha un impatto maggiore produrre la gomma isoprenica (più nota come natural rubber o gomma naturale) partendo da isoprene come derivato dal petrolio o estraendola dall’albero della gomma. Chi risponde subito la seconda opzione dimentica che per soddisfare la richiesta mondiale di gomma naturale i paesi del Sud Est asiatico stanno distruggendo le foreste pluviali per sostituirle con piantagioni di albero della gomma, con gravissime ripercussioni a livello ambientale (così come avviene, ad esempio, per le coltivazioni di palma per la produzione di olio). Assodato che la risposta corretta non è ovvia e nemmeno facilmente deducibile, per arrivare alla verità – o almeno il più vicino possibile – è necessario servirsi di studi di Life Cycle Assessment (LCA), un metodo strutturato e normato (ISO 14040 e ISO 14044) utilizzato per valutare l’impatto di un bene sull’ambiente.

I diversi approcci dell’LCA

In un’analisi di LCA si inseriscono i parametri conosciuti relativi al ciclo di vita di un manufatto e si ottiene come output il suo impatto ambientale relativo a diversi fattori, come le emissioni di anidride carbonica, la richiesta di energia, l’eutrofizzazione… Esistono diverse tipologie di studi di LCA, basate su approcci differenti che si focalizzano su specifiche macrofasi di un sistema produttivo.

Solo per fare qualche esempio si parla di LCA:
• from cradle to grave (dalla culla alla tomba) quando l’analisi parte dall’approvvigionamento delle materie prime (dall’estrazione di petrolio o dalla coltivazione dei vegetali nel caso di bioplastiche) e delle fonti energetiche, arriva fino all’immissione sul mercato del prodotto finito e si conclude con il suo utilizzo e smaltimento;
• from cradle to cradle (dalla culla alla culla) quando oltre all’approccio from cradle to grave si considera il riciclo del manufatto, che si concretizza o nel ri-produrre lo stesso bene o beni di altro tipo utilizzando gli scarti;
• from cradle to gate (dalla culla al cancello) se lo studio parte dall’approvvigionamento delle materie prime e delle fonti energetiche e si conclude quando il prodotto finito lascia l’azienda produttrice (gate), escludendo quindi la fase di utilizzo del manufatto;
• from gate to gate (dal cancello al cancello) se l’analisi si esplica in una regione spaziale delimitata, ad esempio quella aziendale, percorrendo la sola fase di fabbricazione e assemblaggio.

Un’analisi articolata

Come è facile immaginare, gli studi di LCA possono essere molto complessi ed è praticamente impossibile valutare l’impatto esatto di ogni singola fase di un ciclo produttivo, anche perché intervengono molti fattori aleatori. Ad esempio, immaginiamo due aziende, situate una di fianco all’altra, che producono lo stesso identico bene utilizzando le stesse tecnologie e le stesse risorse acquistate dai medesimi fornitori, che le trasportano con gli stessi camion attraverso lo stesso percorso. Fino a questo punto è ragionevole affermare che l’LCA è identico in entrambe le situazioni. Ma cosa accadrebbe, invece, se una delle due aziende acquistasse dei nuovi camion con un consumo di carburante inferiore? Il suo LCA “cradle to gate” dovrebbe essere inferiore, visto il minor inquinamento causato dai nuovi mezzi di trasporto. Si potrebbe però obiettare che, acquistando camion nuovi, l’azienda ha alzato il proprio LCA perché ha “costretto” qualcuno a produrre i veicoli, utilizzando molte risorse con elevato impatto, mentre se avesse utilizzato i mezzi vecchi questo impatto sarebbe minimo. E gli esempi di questo tipo potrebbero continuare a lungo. Perché siano affidabili, quindi, gli studi di LCA devono basarsi sul confronto diretto tra due prodotti oppure sul confronto dell’oggetto di studio con uno standard di riferimento, ed è piuttosto intuitivo comprendere che possono essere affetti da errori rilevanti se non si conoscono le condizioni specifiche di produzione e/o smaltimento di un bene. Come tutti gli strumenti vanno perciò utilizzati con cautela, conoscendone pregi e limiti, ma – fatte tali premesse – questi studi sono da ritenere fondamentali per valutare il reale impatto dovuto all’introduzione di nuove tecnologie e/o al cambiamento dei cicli di vita di un manufatto. Va da sé che oggi le analisi di LCA siano molto utilizzate e trovino un terreno assai fertile nel mondo delle materie plastiche. Probabilmente, le più note e consolidate sono quelle relative alle bottiglie in PET e ad altre tipologie di packaging, che – oltre ad altri elementi – valutano se e come una tecnologia di riciclo possa essere più o meno impattante di un’altra.

L’economia circolare dei rifiuti di packaging in plastica

Tra i tanti studi di LCA riportati sulle riviste scientifiche, a nostro parere, merita una menzione l’articolo “Towards a circular economy for plastic packaging wastes – the environmental potential of chemical recycling” di Raoul Meys et al, pubblicato l’anno scorso su Resources, Conservation & Recycling [1], una rivista con impact factor molto elevato. Come suggerisce il titolo, i ricercatori si sono posti una domanda: il riciclo chimico delle plastiche ha un impatto ambientale maggiore o minore del “tradizionale” trattamento dei rifiuti? Per rispondere hanno valutato le tecnologie oggi proposte per il riciclo chimico di PET, HDPE, LDPE, PP e PS – le cinque plastiche più utilizzate nell’imballaggio – e le hanno confrontate con diversi scenari relativi al trattamento dei rifiuti, utilizzando dati ottenuti dalla letteratura scientifica esistente e fissando alcune (necessarie) condizioni al contorno. Lo studio è condotto in modo rigoroso e, soprattutto, illustra chiaramente i limiti legati alla scarsità di dati di supporto per effettuare un LCA affidabile sul riciclo chimico; per questo motivo gli autori, per la loro analisi, hanno ipotizzato un riciclo chimico ideale a livello termodinamico, caratterizzato quindi dagli impatti ambientali più bassi possibile.

Nel lavoro vengono identificate 26 tecnologie di riciclo chimico (divise in quattro famiglie) per le cinque plastiche citate, che vengono confrontate con 18 tipi di trattamento “tradizionale” dei rifiuti (divisi a loro volta in tre famiglie). Per il riciclo chimico si presuppone, molto correttamente, che non solo evita i costi di smaltimento della plastica, ma che permette anche di ottenere sostanze utilizzabili come materie prime, che quindi non devono essere prodotte ex-novo: questo porta a un’ovvia riduzione dell’impatto ambientale della plastica oggetto del riciclo chimico nello studio LCA. Gli autori, però, considerano che anche attraverso i tradizionali trattamenti dei rifiuti si possono generare materie prime che riducono l’impatto ambientale: ad esempio, l’utilizzo dei rifiuti plastici nei cementifici permette di diminuire l’impiego di combustibile fossile, mentre negli inceneritori produce calore ed energia che altrimenti dovrebbero essere generati utilizzando altre risorse.

Le vie del riciclo chimico

Le quattro famiglie di riciclo chimico individuate dai ricercatori sono riconducibili all’impiego dei rifiuti di packaging in plastica come feedstock per raffinerie, nella produzione di carburanti, nella produzione di monomeri oppure nei processi di upcycling chimico. Scendendo nel dettaglio, ne analizzano le potenzialità e l’efficienza di conversione.

Feedstock per raffinerie
Le poliolefine (PP, HDPE, LDPE) e il PS possono essere liquefatti e sostituire il greggio e gli intermedi, come la nafta, nei processi di raffinazione e di steam cracking. Il PET, invece, non è adatto al processo perché genera grandi quantità di acido benzoico, che causa problemi di corrosione a tubi e scambiatori di calore.

Produzione di carburanti
Attraverso gassificazione o pirolisi, i polimeri vengono convertiti in miscele di combustibili gassosi o liquidi. Questi processi non sono considerabili un riciclo ideale, poiché viene recuperato solo il contenuto energetico delle materie plastiche, che una volta trasformate in carburante vengono consumate e non possono tornare nel ciclo della materia. La resa della conversione in carburanti gassosi arriva al 99% per HDPE, LDPE e PP, mentre scende al 76,9% per il PET (con bassissimo potere calorico) e tocca addirittura un misero 9,9% per il PS, a causa dell’elevata frazione aromatica che tende a trasformarsi in prodotti solidi e liquidi. La resa della conversione in carburanti liquidi si assesta al 95,7% per le poliolefine, al 38,89% per il PET e al 96,73% per il PS, visto che in questo caso la frazione aromatica diventa utilizzabile.

Produzione di monomeri
Le poliolefine possono essere riconvertite ai propri monomeri tramite pirolisi termica o catalitica con rese fino al 75%. Nella conversione del PET in acido tereftalico e dimetiltereftalato si arriva fino al 90%, mentre con il PS si arriva al 70%.

Upcycling chimico
I rifiuti da imballaggio possono essere trasformati in prodotti chimici a valore aggiunto attraverso il processo di upcycling chimico. Ad esempio, dal PET è possibile ottenere cicloesandimetanolo, che può essere un ottimo monomero per policarbonato e fibre a base poliestere. Questo approccio, ad oggi, non può essere utilizzato per HDPE, LDPE, PP e PS.

Il trattamento dei rifiuti “tradizionale”

Nell’analisi delle diverse tecnologie per il riciclo tradizionale dei rifiuti da imballaggio, i ricercatori hanno identificato tre famiglie: conferimento in discarica, recupero energetico e riciclo meccanico.

Conferimento in discarica
Nel 2015 il conferimento in discarica è stata la modalità di trattamento dei rifiuti di packaging in plastica più diffusa a livello mondiale con il 59% (il valore in Europa scende al 28%), ma l’approccio all’economia circolare di Stati Uniti e Cina, così come le politiche dell’Unione europea che impongono un tasso di riciclo del 55% entro il 2030, stanno innescando una vera e propria inversione di tendenza. Nello studio, pertanto, non viene considerata questa modalità di gestione dei rifiuti.

Recupero energetico
Vietato il conferimento in discarica, il recupero energetico resta l’unica possibilità valida per gli imballaggi in plastica che non possono essere riciclati con le tecnologie meccaniche. Gli scenari considerati nello studio riguardano l’impiego nei cementifici e la termovalorizzazione, che nel caso degli inceneritori urbani – secondo i valori medi registrati in Europa – raggiunge un’efficienza energetica del 41% e un rapporto potenza/calore di 0,35.

Riciclo meccanico
Nel 2015, in tutto il mondo, solo il 16% dei rifiuti da imballaggio in plastica veniva riciclato per via meccanica contro il 73% della Germania. Questa discrepanza dimostra che un sistema di raccolta e separazione ben organizzato, come quello tedesco, permette di raggiungere un’elevata efficienza nel riciclo meccanico.
Tuttavia, come ben noto, le plastiche rigenerate non offrono le stesse prestazioni di quelle “vergini”, pertanto nel modello di LCA sviluppato i ricercatori hanno inserito il “fattore di sostituzione”, ovvero la quantità di plastica vergine che può essere sostituita da un chilogrammo di quella riciclata. Per HDPE, LDPE e PP questo valore è pari a 0,7 (è necessario un chilogrammo di plastica riciclata per sostituire 0,7 chilogrammi di vergine) e pari a uno per il PET, che si ricicla ottimamente.

Riciclo chimico, non solo vantaggi

Definite le possibili alternative per il riciclo, la ricerca le mette a confronto per individuare quelle con il maggior potenziale in termini di sostenibilità ambientale. Lo studio analizza 75 scenari di trattamento che rappresentano circa il 50% dei rifiuti in plastica globali e, data la complessità del contesto, le conclusioni sono difficilmente generalizzabili.

Confronto tra riciclo chimico e termovalorizzazione
La ricerca evidenzia che tutti i percorsi di riciclo chimico dei rifiuti di packaging considerati sono vincenti rispetto alla conversione in energia termica ed elettrica, dal momento che gli attuali impianti di termovalorizzazione sono caratterizzati da elevate emissioni inquinanti e bassi rendimenti di conversione. L’upcycling chimico del PET in cicloesandimetanolo mostra il potenziale più elevato nella riduzione degli impatti del riscaldamento globale e dell’esaurimento delle risorse fossili: il riciclo chimico ideale, infatti, potrebbe evitare fino a 4,2 chilogrammi di CO2 equivalenti e 1,4 chilogrammi di oil equivalenti per ogni chilogrammo di rifiuti in PET trattati. A differenza della termovalorizzazione, l’impiego dei rifiuti nei cementifici e il riciclo meccanico meritano un’analisi più attenta. I processi di riciclo chimico per la produzione di carburanti e feedstock evidenziano un maggior impatto ambientale sul riscaldamento globale e sull’esaurimento delle risorse fossili rispetto al recupero energetico nei forni dei cementifici, assumendo però che le plastiche di scarto sostituiscano la lignite. Il risultato si inverte quando vengono utilizzati come combustibili “tradizionali” il gas naturale o le biomasse. Considerando, invece, il riciclo chimico per la produzione di monomeri, si rileva che è particolarmente favorevole l’upcycling verso sostanze chimiche a valore aggiunto. Generalizzando, PET e PS – PP anche se in misura minore – mostrano un impatto inferiore rispetto a HPDE e LDPE, per i quali il riciclo chimico per la produzione di monomeri è addirittura sfavorito rispetto all’incenerimento in cementificio. Un’analisi di sensitività mostra che si potrebbero ottenere benefici ambientali ancora maggiori sviluppando processi di riciclo chimico più efficienti dal punto di vista energetico rispetto allo stato dell’arte attuale.

Confronto tra riciclo chimico e riciclo meccanico
Anche nel confronto tra il riciclo meccanico e chimico, gli autori distinguono i processi di produzione di combustibili e altri feedstock di raffineria, e di monomeri. I risultati dell’analisi mostrano che, in termini di impatto sul riscaldamento globale, il riciclo meccanico è vantaggioso rispetto a quello chimico nel primo caso. Al contrario, il riciclo chimico è vincente quando i rifiuti vengono trasformati in monomeri e in sostanze ad alto valore aggiunto attraverso l’upcycling chimico, soprattutto nel caso del PET in dimetiltereftalato ed etilenglicole. Per quanto riguarda l’esaurimento delle risorse fossili, tranne che per il PS, i risultati differiscono leggermente rispetto al riscaldamento globale: le poliolefine hanno sempre un maggior impatto ambientale, mentre quello del PET è favorevole solo nel caso dell’upcycling chimico e della produzione di dimetiltereftalato ed etilenglicole. Per comprendere appieno le conseguenze ambientali legate all’implementazione del riciclo chimico, nello studio viene considerato anche l’impatto sull’acidificazione e sull’eutrofizzazione delle acque dolci e marine, che si dimostra più o meno elevato nelle diverse situazioni, con risultati – anche in questo caso – difficilmente generalizzabili.

Una via possibile

Sull’onda del Green Deal europeo, dopo anni di indifferenza, si ricomincia a parlare di riciclo chimico, dal momento che è ormai assodato che il riciclo meccanico, da solo, non è sufficiente per raggiungere gli ambiziosi obiettivi posti da Bruxelles all’industria delle materie plastiche. È pur vero, però che se il riciclo meccanico è ritenuto unanimemente lo strumento principe della circolarità, lo stesso apprezzamento non viene riservato al riciclo chimico. Piace ai produttori di polimeri, è malvisto dagli ambientalisti e guardato con sospetto dai riciclatori, mentre a livello comunitario l’orientamento è in bilico tra un’accettazione per necessità e un rifiuto aprioristico. Prima di una decisione definitiva, però, sono necessari studi e ricerche indipendenti per sgombrare i timori che non pochi nutrono verso il riciclo chimico in termini di impatto ambientale, emissioni e consumi energetici.

Lo studio di LCA considerato è un passo in questa direzione, dal quale emerge che l’analisi dell’impatto ambientale del riciclo chimico richiede un’attenta valutazione sulla base del tipo di rifiuti da trattare e dei diversi indicatori ambientali. Come tendenza generale, la ricerca rivela che è particolarmente vantaggioso in alcune situazioni, ad esempio nella produzione di monomeri o nell’upcycling in prodotti a valore aggiunto degli imballaggi di PS e PET attualmente trattati negli inceneritori di rifiuti urbani, beneficio che si perde trasformando in combustibili e altri feedstock i rifiuti di PS e PET riciclati per via meccanica.

Bibliografia

Raoul Meys et al. “Towards a circular economy for plastic packaging wastes – the environmental potential of chemical recycling”, Resources, Conservation & Recycling, Volume 162, Novembre 2020, 105010

 


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