Le microplastiche sono davvero il “cavallo di troia” degli oceani?

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L’incuria dell’uomo e l’incauta gestione dei rifiuti in plastica in diverse aree geografiche li hanno resi una delle problematiche ambientali oggi più pressanti. Una parte delle materie plastiche prodotta negli ultimi sessant’anni (stimata pari a 8,3 miliardi di tonnellate) è inevitabilmente giunta negli ecosistemi acquatici direttamente in forma di microplastica o di oggetti che nel tempo si sono degradati meccanicamente.
Gli elementi naturali hanno fatto il resto, trasportando i frammenti in tutti gli ecosistemi acquatici e terrestri, compresi quelli remoti come le profondità oceaniche e i ghiacciai, favorendone l’ingresso nel ciclo dell’acqua e nei cicli biologici.

La tossicità delle microplastiche

Gli effetti delle microplastiche sulla salute umana sono ancora ignoti, ma vista la risonanza del problema un numero crescente di ricercatori sta affrontando l’argomento.
Oltre alla possibile tossicità indotta dall’ingestione dei polimeri che costituiscono tali frammenti, che come abbiamo già discusso nel focus pubblicato su Plastix di ottobre è oggetto di intensi studi e ricerche, l’attenzione viene rivolta anche al possibile rilascio degli additivi in essi contenuti.

Come è noto, la disponibilità di cariche e additivi è decisamente ampia e la quantità utilizzata è estremamente variabile. Si va dalle cariche minerali, presenti fino al 40-50% in peso, ai coloranti e agli antiossidanti, spesso in quantità inferiori all’1% in peso, passando per ritardanti di fiamma, plastificanti, lubrificanti…. Molte di queste sostanze, impiegate per anni in quantità enormi, hanno poi dimostrato di essere estremamente tossiche e in grado di determinare disturbi endocrini, nonché effetti biochimici, molecolari, comportamentali e sulla riproduzione di diversi organismi. È il caso, ad esempio, di molecole antifiamma come i polibromodifenileteri (PBDE), molto spesso aggiunte alle poliammidi, o del diottilftatalo (DOP), fino a qualche anno fa “re” incontrastato dei plastificanti per il PVC. Migliaia di tonnellate di poliammidi contenenti PBDE e di PVC contenente DOP sono state riversate nell’ambiente e hanno quindi progressivamente rilasciato gli additivi.

Se ci fermassimo qui potremmo pensare che una soluzione, difficile ma percorribile, esista e che sia addirittura concettualmente facile: sostituire le sostanze che si rivelano tossiche con altre che abbiano un profilo di tossicità inferiore, cosa che peraltro già avviene ormai in ogni settore. Ma ovviamente il problema non è solo questo…

Microplastiche o microspugne?

Le ricerche finora condotte dimostrano come plastiche di diversa natura, di dimensioni sia macro sia micro, siano in grado di adsorbire contaminanti organici idrofobici e idrofili – proprio perché anch’esse possono essere più o meno idrofile –, nonché elementi in traccia, come alcuni metalli pesanti.
A causa dell’elevato rapporto tra superficie e volume, le microplastiche possono infatti fungere da “spugne” per un’ampia gamma di contaminanti ambientali, adsorbendoli sulla loro superficie, diventando così un ulteriore vettore che ne regola il trasporto all’interno degli ecosistemi.

I contaminanti idrofobici

Per quanto concerne i contaminanti idrofobici, gli studi oggi disponibili si riferiscono all’interazione tra policlorobifenili (PCB), idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e altri derivati dell’anello benzenico e polimeri di diversa natura [1, 2].
Già nel 2005, una ricerca [3] ha dimostrato come i PCB possano efficacemente adsorbirsi su polimeri come polietilene (PE), polistirene (PS) e polivinilcloruro (PVC), ma anche che l’adsorbimento su film di PE è significativamente più elevato rispetto a quello riscontrato su PS e PVC. Più recentemente, si è scoperto che anche polipropilene (PP) e polietilene tereftalato (PET) sono in grado di adsorbire i PCB. Uno studio condotto nella baia di San Diego (USA), ad esempio, mostra che microplastiche di PE, PP e PET adsorbono sulla loro superficie diversi congeneri di PCB, e conferma inoltre che il PE presenta una capacità di adsorbimento superiore a quella degli altri polimeri [4].
Per quanto riguarda gli IPA, la letteratura scientifica evidenzia che anch’essi vengono efficientemente adsorbiti su particelle di PE, PS, PP e PVC e che la capacità di adsorbimento sul polimero cresce all’aumentare della loro idrofobicità [5]. Da altre ricerche emerge che anche la cristallinità del polimero rappresenta una variabile in grado di influenzare l’adsorbimento di contaminanti idrofobici su plastiche e microplastiche. Ad esempio, il PE a bassa densità mostra una capacità di adsorbimento degli IPA più elevata rispetto al polietilene ad alta densità [6], notoriamente molto più cristallino.

I contaminanti idrofili

Sebbene finora le ricerche si siano focalizzate prevalentemente sulle interazioni tra plastiche e contaminanti ambientali idrofobici, negli ultimi anni è stato analizzato anche il comportamento di alcuni inquinanti idrofili, come i composti per- o polifluorurati (PFAS). In particolare, è stato dimostrato che il perfluoroottansolfonato (PFOS) e il suo precursore perfluoroottansolfonammide (FOSA) vengono adsorbiti sulla superficie di microplastiche di diversa composizione polimerica, come PE, PS e PVC. Dall’analisi della letteratura scientifica emerge che molte altre sostanze di uso comune hanno un comportamento analogo.
Ne sono un esempio antibiotici come sulfadiazina, amoxicillina, tetraciclina, ciprofloxacina e trimetoprim [7, 8], oppure il triclosan, un noto antibatterico (contenuto in molti detergenti, dentifrici e prodotti per la cura della persona, nda) presente nell’ambiente in concentrazioni affatto trascurabili, che è in grado di adsorbirsi efficacemente su particelle di PVC, PP e PS [9, 10, 11].

I contaminanti inorganici

La letteratura scientifica analizzata è concorde nel sostenere che diversi metalli, inclusi quelli pesanti, riescono ad adsorbirsi sulla superficie delle microplastiche. Una ricerca del 2018 [12] riporta che alcuni elementi in traccia (nichel, rame, silicio, alluminio, ferro e magnesio) sono stati riscontrati sulla superficie di oggetti in plastica di diversa composizione (PVC, PET e polibutilene adipato tereftalato o PBAT) esposti per oltre un anno in ambiente marino. Uno studio condotto all’interno della Baia di San Diego [13] dimostra invece come nove elementi in traccia (alluminio, cromo, magnesio, ferro, cobalto, nichel, zinco, cadmio e piombo) siano stati efficientemente adsorbiti su frammenti di PET, PVC, polietilene a bassa densità (LDPE), polietilene ad alta densità (HDPE) e PP. Gli autori hanno inoltre evidenziato un elemento assolutamente non trascurabile che potrebbe veicolare l’adsorbimento degli elementi in traccia sulle microplastiche, individuabile nel biofilm che le riveste. Come tutte le superfici sommerse, anche i frammenti polimerici, infatti, sono soggetti alla colonizzazione di un’aggregazione complessa di microrganismi (prevalentemente batteri) contraddistinta dalla secrezione di una matrice adesiva e protettiva. L’ipotesi, pertanto, è legittima. Una ricerca pubblicata nel 2018 [14] evidenzia che a fronte della stessa composizione del biofilm sulla superficie delle microplastiche è stata osservata un’identica impronta di contaminazione da elementi in traccia, un risultato che suggerisce come l’adsorbimento dei contaminanti possa essere controllato dallo stesso biofilm [14].

Un pericoloso vettore

In linea generale, appare evidente come le microplastiche siano delle efficientissime spugne in grado di adsorbire sulla loro superficie i contaminanti ambientali con cui vengono in contatto. Tale situazione è purtroppo generalizzata, ossia si verifica indistintamente in ambiente acquatico e terrestre, e coinvolge tutte le tipologie di polimeri, sebbene le capacità di adsorbimento possano variare in relazione a diversi fattori, quali le proprietà fisico-chimiche e il grado di invecchiamento del polimero, la salinità, la temperatura, il pH e la presenza di sostanza organica o il biofilm che ricopre la microplastica. Un ulteriore aspetto da non trascurare è la dimensione delle particelle, il cui potenziale di adsorbimento aumenta al diminuire delle dimensioni perché cresce il rapporto tra superficie e volume.
Una simile prospettiva apre il campo a una problematica ancora più complessa, ossia l’adsorbimento dei contaminanti sulle nanoplastiche. Questi frammenti di dimensioni nanometriche, che già di per sé potrebbero rappresentare un serio problema per gli organismi in quanto in grado di attraversare le membrane biologiche e determinare un effetto potenzialmente maggiore rispetto alle microplastiche, potrebbero inoltre fungere da “cavallo di troia” per diversi inquinanti ambientali, esacerbando la potenziale tossicità delle nanoplastiche stesse.

Dato il quadro delineato, sarebbe opportuno studiare il comportamento dei contaminanti adsorbiti sulla superficie delle microplastiche a seguito dell’ingestione da parte degli organismi al fine di comprenderne il destino e la potenziale tossicità. Tali indagini consentiranno di rispondere a una domanda fondamentale nell’ottica della valutazione del rischio legato all’esposizione alle microplastiche: gli effetti tossici attualmente ricondotti alla loro ingestione sono dovuti alle microplastiche in sé oppure ai contaminanti adsorbiti sulla superficie? Ai posteri l’ardua sentenza.

Bibliografia

1 J. Ma et al., Environ. Sci. Technol., 2017, 51, 12283-12292
2 J. Ma et al., Environ. Sci. Technol., 2018, 52, 13925-13934
3 M.A. Pascall et al., J. Agric. Food Chem., 2005, 53, 164
4 C.M. Rochman et al., Environ. Sci. Technol., 2013, 47, 1646-1654
5 H. Lee et al., Sci. Total Environ., 2014, 470-471,1545-1552
6 E. Fries et al., Environ. Sci. Pollut. Res. Int., 2012, 19, 1296-1304
7 J. Li et al., Environ. Pollut., 2018, 237, 460-467
8 X.C. Shen et al., Environ. Res., 2018, 166, 377-383
9 J. Ma et al., Environ. Pollut., 2019, 254, 113104
10 Y. Li et al., Chemosphere, 2019, 231, 308-314
11 X. Wu et al., Sci. Total. Environ., 2020, 717, 137033
12 M. Kedzierski et al., Mar. Pollut. Bull., 2018, 127, 684-694
13 C.M. Rochman et al., PLoS One 9, 2014, e85433
14 M.P. Johansen et al., J. Environ. Radioact., 2018, 190, 130-133


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