Greenwashing: lotta all’ecologismo di facciata

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L’ecologismo o ambientalismo di facciata è noto a livello internazionale con il termine “greenwashing”. La questione, che si colloca al centro di numerosi dibattiti negli ultimi tempi, per certi aspetti coinvolge in maniera diretta anche il comparto plastico, costantemente sotto i riflettori della comunità globale. Con una portata sempre più grande, tanto da arrivare anche alle alte sfere, il greenwashing è diventato oggetto di una proposta di direttiva, presentata nel mese di marzo 2023 dalla Commissione europea, con l’obiettivo di frenare il fenomeno e proteggere ulteriormente i diritti dei consumatori. La normativa, che dovrà essere vagliata dal Parlamento e dal Consiglio, mira a contrastare l’ingannevole uso di etichette poco trasparenti, a discapito di tutte quelle aziende corrette, che impiegano soldi e tempo rispettando i principi di sostenibilità.

La strategia comunicativa e il rischio reputazionale

Secondo la Commissione europea, il greenwashing è una pratica relativa ad affermazioni ambientali poco chiare o non ben motivate

Il greenwashing è una strategia comunicativa utilizzata dai brand (piccoli e grandi) per costruire un’immagine di sé stessi protratta verso l’ambiente, che però non corrisponde al vero. Partendo da comportamenti effettivamente “green oriented”, le imprese provano a focalizzare l’attenzione solo sugli aspetti positivi del proprio operato, dissimulando gli altri.

Negli ultimi anni sono stati commissionati diversi Report in materia. Pensiamo al Brand Audit Report 2021, o al rapporto Burning Question: questi, partendo dalla questione relativa all’inquinamento plastico, viravano poi sugli effetti del greenwashing. Dai dati è emerso che grandi nomi, conosciuti a livello mondiale, risultano non solo responsabili dell’inquinamento ma anche di pratiche scorrette che prevedono azioni di greenwashing. Le risorse, che dovrebbero essere utilizzate per ridisegnare la struttura degli imballaggi od ottimizzare e migliorare i sistemi di gestione dei rifiuti, vengono spese per un piano di comunicazione che faccia apparire l’azienda green friendly. Anche perché il greenwashing ha comunque un costo, fatto di spese in pubblicità e marketing. E parliamo di miliardi di dollari, se l’azione è intrapresa da grandi brand.

Tuttavia, a conti fatti, e valutando la semplicità delle operazioni, sembra sia più conveniente agire in questo modo, anche a costo di ricevere multe o ammonimenti pubblici. Forti del proprio prodotto, colossi mondiali come Coca Cola, ad esempio, agiscono quasi ignorando le polemiche, consci che poi, nel breve periodo, la tempesta mediatica si placherà. I tempi, però, stanno cambiando e non si sa ancora per quanto i grandi potranno agire indisturbati. C’è infatti un altro aspetto da valutare: i consumatori non sono più gli stessi di 10 anni fa e si sta modificando anche la percezione relativa alla questione ambientale. Di conseguenza, aumenta il rischio reputazionale: un comportamento poco etico, così come una scarsa (o assente) strategia di sostenibilità e responsabilità sociale, potrebbe danneggiare la nomea dell’azienda, facendo perdere attrattività e riducendo i profitti. Magari non sarà nell’immediato, ma nel lungo periodo questa considerazione va fatta.

Una piccola o media impresa può utilizzare il rispetto dei principi ESG (Environmental, Social, Governance) come suo stendardo, in una battaglia anche solo a livello nazionale. Potrebbe essere una valida strategia per affermarsi sul mercato, e fidelizzare un consumatore sempre più esigente. Quello che non va ignorato è infatti il cambiamento: l’intero ambito imprenditoriale si sta evolvendo, e si prospetta un serio rischio di esclusione per le aziende incapaci di adeguarsi.

Il supporto economico

Un mercato trasparente facilita l’adozione di prodotti net zero superiori, dal punto di vista tecnologico e ambientale

Operare in maniera sostenibile non è certamente semplice e, spesso, l’adeguamento diventa difficile soprattutto in considerazione di fattori economici. Per operare secondo parametri di sostenibilità sono necessari investimenti e per realizzare progressi in ambito produttivo sostenibile c’è bisogno di un supporto economico esterno. Molte imprese non hanno la forza endogena per affrontare il cambiamento, soprattutto non ora. Per questo motivo, negli ultimi anni il Governo italiano ha movimentato importanti cifre, attraverso il Ministero delle Imprese e del made in Italy e il Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica, anche alla luce della disponibilità finanziaria prevista dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Le risorse messe a disposizione dalla Recovery and Resilence Facility, per la realizzazione dei progetti previsti dal PNRR, prevedono l’esecuzione di investimenti “green oriented” che riescano a facilitare l’allineamento delle imprese alle normative europee in tema ambientale.

Il ruolo del consumatore

Le strategie comunicative delle imprese si sono affinate sempre più, negli anni, e a volte, anche agli occhi dei consumatori più attenti, appare solo la faccia “pulita” della medaglia, in linea con i principi ambientali. L’altra faccia, invece, rimane nascosta, e l’impresa continua il suo percorso produttivo incurante dei principi green. Pensiamo, ad esempio, all’utilizzo delle bioplastiche: quel prefisso “bio” comunica un senso di correttezza e di allineamento con il rispetto per l’ambiente. Questa immagine arriva quindi al consumatore che, da parte sua, preferisce quel prodotto a un altro, credendo di agire in maniera eco-friendly, a volte anche per liberarsi da un senso di colpa recondito. Tuttavia, da una più attenta analisi – e volendo studiare nel dettaglio la questione – questa pratica di dichiarare “bio” alcune plastiche potrebbe rientrare nel grande circolo del greenwashing.

Il Green Deal sostiene la libera scelta dei consumatori basata su informazioni trasparenti e affidabili, in merito alla sostenibilità, alla durabilità e alla carbon footprint

Il consumatore pensa di contribuire alla protezione dell’ambiente ma non sa che quella bioplastica (derivante da materie prime rinnovabili come, ad esempio, mais e canna da zucchero), non servirà poi a tanto. La maggior parte delle tecnologie attualmente utilizzate, infatti, non è ancora in grado di produrre un packaging composto al 100% da materiale rinnovabile. Però questo il consumatore non lo sa. Dunque, quella definizione di “bio” corrisponde solo a una piccola parte del prodotto. E qual è il risultato? Attira il consumatore, disposto anche a pagare di più per contribuire alla tutela dell’ambiente.

Se è vero che esistono tante imprese che fanno di tutto per seguire un processo bio, allineandosi con i principi di tutela dell’ambiente, è altrettanto infelice dover ammettere che molte agiscono di proposito per confondere. Di fatto, non si può chiedere al pubblico di saper differenziare tra diverse terminologie (eco, bio, green): questa non può essere una sua priorità, e non deve. Ognuno ha il suo ruolo e il consumatore deve acquistare nella massima trasparenza, è un suo diritto. Se decide di puntare su un prodotto biodegradabile, si sta perfezionando una sorta di contratto tra una parte che offre un bene con specifiche caratteristiche e l’altra che, a fronte di tale prodotto, corrisponde una quota di denaro. Quale rischia di essere, invece, la realtà? Un acquisto di un prodotto non corrispondente a quanto pubblicizzato. Pertanto, da un punto di vista giuridico, saremo di fronte a una prestazione non corrispettiva.

L’intervento della Commissione europea

Concretizzando il proprio impegno nell’ambito del Green Deal europeo, per arginare il fenomeno del greenwashing, il 22 marzo 2023 la Commissione UE ha presentato la proposta di Direttiva n. 85/2023. Si tratta del terzo pacchetto in materia di economia circolare. Gli altri due risalgono al 2022: con il primo, nel mese di marzo la Commissione suggeriva un regolamento sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili, soprattutto con riferimento ai tessili, ma anche una responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde. Il secondo, di novembre, proponeva un nuovo regolamento sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio. L’attuale terzo pacchetto esige norme più cogenti in materia di asserzioni e autodichiarazioni ambientali, vietando la pubblicità ingannevole. A Bruxelles, infatti, è apparsa ormai necessaria la predisposizione di regole ben precise, considerando che le normative in vigore riescono a fare ben poco.

In particolare, si focalizza l’attenzione sulle autodichiarazioni volontarie, attraverso le quali viene alimentato il processo pseudo green, provocando una condizione di disparità all’interno del mercato europeo. Vengono infatti penalizzate le imprese davvero sostenibili, mentre le altre continuano ad operare in maniera indisturbata. Con l’entrata in vigore della Direttiva, nei prossimi mesi, sarà quindi necessario rispettare una serie di norme, prima di pubblicizzare la propria posizione. Il riferimento è diretto, soprattutto, a quella tipologia di autodichiarazioni esplicite che non lasciano dubbi; si pensi a diciture del tipo “imballaggio in plastica riciclata al 30%”, che individua chiaramente una specifica situazione. Per quanto riguarda invece autodichiarazioni sottoposte a discipline già esistenti (come nel caso del marchio Ecolabel UE o del logo per gli alimenti biologici), non sarà necessario un ulteriore adeguamento, perché esiste già la copertura delle precedenti regolamentazioni. Con la nuova normativa in fieri, poi, verrà frenato il fenomeno dei brand ingannevoli, l’atto che prevede la creazione di nuovi marchi ambientali pubblici e privati, chiaramente ambigui.

Marianna Capasso

(Articolo pubblicato sulla rivista Plastix di maggio 2023)


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