Circolano ancora molti falsi miti sulle bioplastiche. Cerchiamo di fare chiarezza sul significato del termine “bioplastiche”, sui vantaggi ambientali che offrono e su come trattarle a fine vita.
di Giovanni Lucchetta, Università di Padova
La produzione annuale di bioplastiche ammonta a circa 2 milioni di tonnellate a livello mondiale, di cui due terzi sono plastiche biodegradabili. Questo rappresenta una frazione minima rispetto agli oltre 380 milioni di tonnellate di plastica fossile prodotta annualmente. Nonostante una crescita annua del 4% a livello globale e del 10% in Europa, si prevede che la quota di mercato delle bioplastiche rimarrà intorno al 2%. Tuttavia, con adeguati sussidi, potrebbe raggiungere una crescita del 10-20%. Attualmente, i settori del packaging alimentare e dei beni di consumo a rapida rotazione costituiscono i principali mercati per questi materiali (vedi foto d’apertura, ndr).
Ma cosa sono esattamente le bioplastiche? Il termine, pur essendo ampiamente utilizzato, è spesso frainteso a causa della sua definizione ambigua. A seconda del contesto, il prefisso “bio” nelle bioplastiche può significare diverse cose: 1) i monomeri sono derivati da risorse rinnovabili (biomassa) e poi polimerizzati attraverso processi chimici; 2) il polimero è estratto dalla biomassa; 3) il polimero o la plastica è biodegradabile; 4) il materiale è prodotto attraverso processi biologici; o 5) una combinazione di queste caratteristiche.

L’utilizzo di terminologie più specifiche può essere utile per chiarire questa ambiguità. Per esempio, il polietilene a base biologica (biobased PE o bioPE, nel quadrante in altro a sinistra di figura 1) è un polimero prodotto da derivati della biomassa, ma non è facilmente biodegradabile. Il polibutilene succinato (PBS) è tipicamente di origine fossile, ma biodegradabile (facilmente idrolizzabile). I poliidrossialcanoati (PHA) sono biodegradabili e a base biologica, almeno quando i microrganismi che li sintetizzano sono coltivati su biomassa.
In generale, il termine “bioplastiche” dovrebbe essere utilizzato solo per le plastiche prodotte da risorse rinnovabili indipendentemente dalla loro biodegradabilità, e così faremo nel resto dell’articolo. Sebbene alcuni materiali biodegradabili ma derivati da fonti fossili siano talvolta definiti bioplastiche, quest’uso della terminologia è sconsigliato in quanto fuorviante.
Il ciclo del carbonio
Il processo di produzione delle bioplastiche inizia con l’estrazione o la sintesi di monomeri da composti della biomassa, come gli zuccheri presenti nelle piante. Questi monomeri vengono poi polimerizzati per creare sia sostituti diretti delle plastiche esistenti, come il PE, sia nuovi polimeri come l’acido polilattico (PLA). Inoltre, l’estrazione dalla biomassa può anche fornire polimeri naturali non sintetici, come l’amido, la gomma naturale e le proteine.

La Direttiva 2009/28/CE del Parlamento Europeo definisce la biomassa come “la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”. Si tratta quindi di risorse rinnovabili a base biologica che sono convertite in sostanze chimiche attraverso l’uso di impianti chiamati “bioraffinerie”, analogamente al concetto tradizionale di una raffineria petrolifera.
Produrre i polimeri a partire dalla biomassa anziché dal petrolio offre sostanzialmente due vantaggi in termini di impatto ambientale:
1) Le risorse rinnovabili (come la biomassa) si rigenerano naturalmente in tempi relativamente brevi, a differenza delle risorse fossili (come il petrolio) che richiedono milioni di anni per formarsi. Questo aspetto è cruciale per la sostenibilità a lungo termine. Utilizzando risorse rinnovabili, possiamo teoricamente mantenere un equilibrio tra consumo e rigenerazione, conservando le risorse per le future generazioni (figura 2). Inoltre, l’utilizzo di risorse rinnovabili può ridurre l’impatto ambientale legato all’estrazione petrolifera, che è spesso associata a rischi di inquinamento, perdite di habitat e altri danni ecologici.
2) Nel caso delle bioplastiche, assistiamo a un ciclo del carbonio a breve termine (figura 3). Le piante e altri organismi assorbono CO2 dall’atmosfera durante la loro crescita, e questa biomassa viene poi utilizzata per produrre le plastiche. Quando queste plastiche si decompongono o vengono bruciate, rilasciano la stessa CO2 che era stata assorbita recentemente. Questo ciclo si completa in un arco temporale relativamente breve, nell’ordine di anni o decenni. Al contrario, le plastiche derivate da fonti fossili sono parte di un ciclo del carbonio a lungo termine. Il petrolio si è formato da organismi morti milioni di anni fa, intrappolando il carbonio nel sottosuolo. L’estrazione e l’uso del petrolio per produrre plastica rilascia questo carbonio “antico” nell’atmosfera, aggiungendo nuovo carbonio al ciclo attivo e aumentando la concentrazione di CO2 nell’atmosfera.

In altre parole, le bioplastiche non aggiungono nuovo carbonio al ciclo attivo, ma riciclano quello già presente. Le plastiche prodotte da fonti fossili, invece, immettono nell’atmosfera carbonio che era stato rimosso dal ciclo attivo per milioni di anni.
Tuttavia, è importante considerare alcuni fattori aggiuntivi. L’efficienza energetica dei processi produttivi può influenzare le emissioni totali. Inoltre, l’uso del suolo per la produzione di biomassa può avere impatti ambientali significativi. Infine, il metodo di smaltimento delle plastiche, che sia riciclo, incenerimento o discarica, influenza il bilancio finale di CO2.
Le bioplastiche non sono quindi, a priori, più sostenibili delle plastiche di origine fossile. L’impatto ambientale va valutato caso per caso con il metodo dell’analisi del ciclo di vita (LCA). Sebbene l’uso di risorse rinnovabili possa ridurre le emissioni di carbonio, altri fattori lungo il ciclo di vita possono rendere vani questi benefici. I vantaggi e gli svantaggi in termini di sostenibilità devono essere chiariti attraverso valutazioni che esaminino attentamente tutte le fasi dei cicli di vita delle plastiche di origine fossile e biologica, dalla raccolta delle materie prime, attraverso le varie fasi di lavorazione, fino agli scenari di fine vita.
Implicazioni etiche
La biomassa si sufddivide tipicamente in materie prime di prima e seconda generazione. Le materie prime di prima generazione corrispondono generalmente a zuccheri facilmente fermentabili provenienti da fonti di polisaccaridi commestibili, come il mais e la canna da zucchero, e oli vegetali commestibili. Sebbene alcuni studi suggeriscano che sia possibile produrre in modo sostenibile biomassa sia per l’alimentazione che per il carburante (e quindi anche per materiali di origine biologica), la biomassa di prima generazione rimane controversa a causa di preoccupazioni etiche sulla potenziale competizione con le risorse alimentari, soprattutto in contesti locali.
La biomassa di seconda generazione include vari rifiuti biologici non commestibili, che offrono una materia prima più eticamente sostenibile e ampiamente disponibile, sebbene più complessa da produrre. Per esempio, a livello globale si producono ogni anno più di 1 miliardo di tonnellate di rifiuti agricoli e alimentari, e circa il 20% dei rifiuti domestici è costituito da scarti alimentari. La ricerca sulla bioraffinazione mira a stabilire processi per convertire la biomassa lignocellulosica, come la paglia di frumento e la bagassa di canna da zucchero. Questi scarti agricoli sono tipicamente economici, ma richiedono ulteriori fasi di pretrattamento per liberare gli zuccheri fermentabili della cellulosa e dell’emicellulosa. Un’altra fonte promettente di polisaccaridi è rappresentata dalle alghe marine, che includono alghe brune e rosse.
I progressi tecnologici stanno aprendo nuove prospettive per le bioplastiche. Oggi esistono alternative biologiche per quasi tutte le plastiche tradizionali. Tuttavia, queste alternative sono spesso prodotte in quantità limitate, hanno costi elevati e non sempre offrono significativi vantaggi ambientali. Oltre alla biomassa di prima generazione, come mais e canna da zucchero, stanno emergendo fonti più sostenibili. I rifiuti agricoli lignocellulosici e altri scarti biologici rappresentano una risorsa rinnovabile, abbondante ed eticamente più accettabile. Tuttavia, c’è ancora strada da fare. I processi di bioraffinazione devono diventare più efficienti e rispettare i principi della chimica verde. Questo significa, ad esempio, utilizzare sostanze chimiche non tossiche e ridurre il consumo energetico. Solo così sarà possibile produrre i componenti base per le bioplastiche in modo economicamente competitivo e veramente sostenibile.
Biodegradazione o riciclo?

Le bioplastiche potrebbero sembrare la soluzione ideale al problema dell’impatto ambientale della plastica, suggerendo la possibilità di mantenere un’economia lineare in cui questi materiali vengono prodotti, utilizzati e poi trasformati in compost, o addirittura dispersi nell’ambiente, contando sulla loro biodegradabilità. Tuttavia, questa visione è fuorviante e insostenibile. La realtà è che non disponiamo di sufficienti risorse naturali per produrre tutta la biomassa necessaria a soddisfare l’attuale fabbisogno di plastica. Attualmente, solo lo 0,02% dell’uso globale di terreni agricoli è dedicato alla produzione di precursori per le bioplastiche. Tuttavia, è improbabile che la biomassa possa sostituire completamente le risorse fossili nella produzione di plastica. Secondo alcune stime, per sostituire completamente con bioplastiche le 170 milioni di tonnellate di imballaggi in plastica prodotti annualmente nel mondo, sarebbe necessario utilizzare più della metà della produzione mondiale di mais e aumentare del 60% l’utilizzo annuale di acqua dolce dell’Europa.
Inoltre, la biodegradazione non è la soluzione miracolosa in grado di frenare l’inquinamento da plastica. Tutt’altro. Tipicamente si classifica come lo scenario di fine vita meno desiderabile per le bioplastiche, specialmente se avviene in discariche anaerobiche con emissioni libere di gas. La digestione anaerobica industriale offre una potenziale via per il recupero di metano ed energia. Una biodegradazione vera e rapida senza il rilascio di sostanze chimiche tossiche potrebbe rivelarsi utile in contesti in cui non esistono altre forme di riciclo e dovrebbe essere considerata solo come un’opzione di fine vita per polimeri facilmente idrolizzabili, come il PLA, ma è necessaria più ricerca sull’impatto delle microplastiche come prodotti intermedi.
La vera soluzione sostenibile risiede nella transizione verso un’economia circolare, basata sul riciclo e sul riutilizzo dei materiali (figura 4). Per minimizzare l’impatto ambientale e ridurre i rifiuti plastici, è necessario applicare i principi dell’economia circolare a ogni fase della catena di approvvigionamento della plastica. Ciò implica la progettazione di prodotti riutilizzabili e riciclabili, il miglioramento dell’efficienza energetica nella produzione di bioplastiche, l’aumento dei tassi di raccolta e l’implementazione di metodi di riciclo e “upcycling” robusti e circolari. Tuttavia, la realizzazione di questi obiettivi non richiede solo progressi tecnologici, ma anche investimenti economici e incentivi finanziari creati dai legislatori, data la competitività in termini di costi delle pratiche industriali e dei modelli di business lineari già consolidati.
(Articolo tratto dalla rivista Plastix di aprile 2025)