Da anni ai confine della fantascienza, le plastiche in grado di rigenerarsi si sono ormai confermate una vera e propria tecnologia emergente
«Cara, TUO figlio ha fatto cadere il mio nuovo cellulare giocandoci e ha rotto la cover». «Tranquillo, basta avvicinare le parti rotte e si ripara da sola, tornando quasi come nuova». Un dialogo di questo tipo è pura fantasia? L’idea di poter disporre di un materiale capace di autoripararsi in caso di danneggiamento non solo è affascinante, ma anche estremamente “pratica” sia per gli addetti ai lavori (produttori di manufatti, trasformatori), sia per gli utenti finali. Immaginate la possibilità di riparare oggetti rotti senza doverli necessariamente buttare, oppure di poter utilizzare un coating che riesce a minimizzare l’effetto di graffi e scratch, o ancora un materiale che mentre si sta rompendo comincia già a rigenerarsi lungo la linea di frattura. Insomma, proprietà come quelle che James Cameron ha voluto per robot T-1000 in Terminator 2. E il film deve essere piaciuto molto a Ibon Odriozola, ricercatore presso il CIDETEC (Centre for Electrochemical Technologies) di San Sebastian (Spagna), dal momento che ha deciso di chiamare proprio Terminator il polimero autoriparante a base poliuretanica da lui sviluppato.
Cosa sono i polimeri autoriparanti
Il concetto alla base dei polimeri autoriparanti non è esattamente nuovo, visto che la natura da qualche miliardo di anni provvede a far sì che alcuni organismi viventi possano riparare, entro certi limiti, ciò che si rompe. Eppure, nel campo dei materiali in generale e di quelli polimerici in particolare, il concetto di “autoriparante” (o self-healing) è relativamente nuovo, tanto da essere stato inserito nell’elenco delle dieci tecnologie emergenti del 2013 da Chemistry Views [1], una delle riviste di punta della Wiley-VCH. Per definizione, un materiale self-healing è capace di ripararsi senza che l’uomo intervenga in maniera attiva, limitandosi a porre il materiale nelle condizioni di iniziare il processo (per esempio avvicinando le due parti, come nel video). Questi materiali appartengono perciò alla categoria dei cosiddetti “smart materials”, cioè materiali che hanno proprietà che possono variare in modo controllato in risposta a uno stimolo esterno.
Come ottenere le proprietà self-healing
Per ottenere le proprietà autoriparanti i ricercatori hanno individuato due metodologie assai diverse l’una dall’altra. Si parla di self-healing estrinseco quando nella matrice polimerica viene pre-disperso un opportuno agente chimico che permette la riparazione in risposta a uno stimolo (per esempio una frattura), mentre viene definito self-healing intrinseco quando la riparazione è guidata semplicemente dalle interazioni tra le macromolecole, e può teoricamente essere ripetuta un numero infinito di volte senza aggiungere catalizzatori aggiuntivi, monomeri o trattamenti superficiali particolari.
Le prime ricerche significative in quest’ambito risalgono all’inizio del millennio, e in particolare si riferiscono a un team di ricercatori dei Dipartimenti di Aeronautica e Ingegneria Aerospaziale, di Chimica e di Meccanica Teorica e Applicata dell’Università dell’Illinois guidato da S. R. White [2]. In un articolo pubblicato nel 2001 su Nature (una delle riviste più prestigiose nel mondo scientifico) spiegarono come si poteva ottenere un polimero autoriparante di tipo estrinseco disperdendo in una resina epossidica termoindurente delle microcapsule contenenti l’agente riparatore e un catalizzatore (figura 1).

In caso di frattura meccanica, l’apertura delle microcapsule e il contatto tra agente riparatore e catalizzatore portava al self-healing del materiale (figura 2).

L’idea di S. P. White fu pioneristica e, pur con tutti i suoi limiti – tra cui la minor resistenza meccanica intrinseca del materiale a causa della presenza delle microcapsule, che erano molto fragili, l’elevatissimo costo del catalizzatore e la possibilità di riparare il materiale una sola volta – aprì la strada a nuovi sviluppi in questo campo di ricerca.
Il self-healing intrinseco
Il self-healing intrinseco sfrutta il concetto che la maggior parte dei polimeri commercialmente disponibili è costituita da legami covalenti e che le loro proprietà strutturali sono dovute alla forza molto elevata di questi legami. Un oggetto di plastica, dunque, si romperebbe in seguito alla scissione di tali legami, e la loro rigenerazione porterebbe quindi alla riparazione del manufatto. Questa ipotesi è stata dimostrata con successo attraverso la stimolazione delle parti di plastica lese mediante energia termica o luminosa, che ha portato alla riparazione in modo controllato dei legami covalenti, e quindi al rinsaldamento delle catene polimeriche e ai lembi della frattura [3]. L’approccio “termico” come quello “fotoattivato” sono molto promettenti perché di facile applicazione. Per esempio, il meccanismo di azione del polimero Terminator – un elastomero poli(urea-uretano) – sfrutta le potenzialità del calore: basta lasciare il materiale a temperatura ambiente per circa due ore senza sottoporlo a stress.
In generale, nel self-healing termico sono coinvolte le reazioni di Diels-Alder, che possono avvenire in un ampio intervallo di temperature (generalmente superiori a 60 °C) e sono modulabili in relazione al materiale.
Recentemente, un gruppo di ricercatori del Politecnico di Eindhoven ha considerato altri tipi di legami covalenti – per esempio tra gruppi disolfuro – per conferire caratteristiche autoriparanti anche a basse temperature nelle gomme [4], impiegando un metodo che potrebbe essere applicabile anche ad altri materiali con bassa temperatura di transizione vetrosa (Tg), come poliuretani e poliesteri. In altre parole, l’autoriparazione deve avvenire a una temperatura superiore alla Tg del materiale, poiché le catene polimeriche nel network hanno bisogno di potersi muovere per promuovere le reazioni di riparazione.
In altre situazioni, è stata sfruttata la capacità delle catene polimeriche di ricombinarsi per ottenere materiali intrinsecamente autoriparati. Questo metodo, più che focalizzarsi sulla riparazione di una frattura, si pone l’obiettivo di “ristrutturare” il materiale quando subisce una degradazione. Tale approccio è stato utilizzato con successo con il policarbonato [5] e il carbonato di sodio come catalizzatore. Il materiale degradato è stato essiccato a 130 °C sotto pressione di gas inerte e, dopo il trattamento, si è registrato un aumento del peso molecolare del polimero. Metodi simili sono stati utilizzati anche con PPE e PEEK.
Il self-healing fotoattivato
Il self-healing fotoattivato (figura 4) è molto affascinante, perché apre nuove possibilità per l’autoriparazione. Un gruppo di ricercatori dell’Università del South Mississipi nel 2009 ha pubblicato sulla rivista Science uno studio sulla possibilità di sviluppare poliuretani commerciali (costituiti da esametilen diisocianato e PEG) capaci di autoripararsi grazie all’aggiunta di un additivo opportuno, quando trattati con una radiazione UV a 302 nanometri [6]. Altri ricercatori hanno individuato sistemi per sviluppare poliuretani che rispondono a stimoli sia termici sia luminosi [7].
![Schema di self-healing fotoattivato (fonte [9])](https://static.tecnichenuove.it/plastix/2014/04/figura_4.jpg)
Guarda il video della Case Western University
I prodotti commerciali
Dal punto di vista commerciale, i polimeri self-healing rappresentano ancora una frontiera. Uno dei materiali oggi sul mercato è il SupraB® (figura 5) dell’olandese SupraPolix BV, le cui proprietà autoriparanti sono legate ai legami idrogeno. Secondo il produttore, il prodotto può conferire proprietà autoriparanti a diverse matrici polimeriche.

Un’altra realtà che ha fatto del self-healing il proprio core business è Autonomic Materials, fondata nel 2005 in Illinois. Oggi l’azienda sta lavorando per lanciare sul mercato dei coating autoriparanti capaci di conferire resistenza alla corrosione e agli ambienti estremi. Si tratta di agenti per self-healing estrinseco, da utilizzare come additivi per rendere le plastiche autoriparanti; vengono proposti in tre famiglie dedicate a elastomeri, termoindurenti e coating in polveri.
Sviluppi futuri
La ricerca di materiali self-healing è una delle frontiere della ricerca. L’interesse dimostrato da numerosi centri di ricerca, ma anche da importanti enti come l’Esercito degli Stati Uniti d’America, lascia intendere che questi materiali, nel prossimo futuro, potranno uscire dalla scala accademica. Sicuramente questa tecnologia sarà decisamente poco economica ancora per molto tempo, e verrà quindi utilizzata solo per applicazioni molto particolari. Ma, come è già successo in altre situazioni, è possibile che qualcuno abbia un’idea innovativa per diminuire drasticamente i costi.
Bibliografia
1 http://www.chemistryviews.org/details/ezine/4361011/Top_Ten_Emerging_Technologies_in_2013.html
2 S. R. White et al., Nature, 2001, 409, 794-797
3 M. Q. Zhang et al., Polym. Chem., 2013, 4, 4878-4884
4 J. Canadell et al., Macromolecules, 2011, 44, 2536-2541
5 K. Takeda et al., J. App. Polym. Sci., 2004, 93, 920-926
6 B. Ghosh et al., Science, 2009, 323, 1458-1460
7 Y. Amamoto et al., Adv. Mater., 2012, 24, 3975-3980
8 M. Burnworth et al., Nature, 2011, 472, 334-338
9 Z. Deretsky et al., Nature, aprile 21, 2011
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