La ricerca sulle microplastiche che parla italiano

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Trasportate dal vento e dall’acqua, le microplastiche percorrono distanze enormi, raggiungendo anche gli ecosistemi più remoti e inaspettati, destando non poche preoccupazioni per la salute del pianeta e dei suoi abitanti. Ma, a dispetto dei titoli allarmistici urlati dai media, il mondo scientifico non si è ancora espresso in modo inequivocabile, prendendo tempo prezioso per approfondire un argomento che sta assumendo i contorni di un’emergenza mondiale. I progetti di ricerca, sempre più numerosi, impegnano ormai i cervelli di ogni nazione, anche l’Italia.

Plastix ha visitato i laboratori di due ricercatori che – insieme a un team di collaboratori – da diversi anni si occupano di microplastiche: Marco Parolini, ecologo del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano, e Marco Ortenzi, chimico presso il Laboratorio LaMPo del Dipartimento di Chimica dell’Università degli Studi di Milano.

Microplastiche nelle acque minerali

Non solo negli oceani, nel suolo e nei ghiacciai. La presenza delle microplastiche è stata documentata anche nelle acque minerali di marchi famosi in tutto il mondo, accusando – in un primo momento – le bottiglie in PET di essere la principale fonte di contaminazione. Non convinti, i ricercatori milanesi hanno cercato di comprendere la reale provenienza delle micro particelle in plastica e di quantificare il fenomeno, avviando uno studio sotto la guida del professor Paolo Tremolada, i cui risultati sono stati pubblicati nel 2019 sulla rivista scientifica Water Research. «Ci siamo chiesti se le particelle potessero provenire anche dal tappo» spiega Marco Ortenzi. «Per questo, dopo aver analizzato la reale presenza di microplastiche nelle acque minerali di tre marchi diversi, abbiamo preso in esame gli effetti dell’usura delle chiusure a vite. Per farlo, abbiamo scelto bottiglie da mezzo litro di spessore diverso (leggero, medio e pesante) sottoponendole a due diversi trattamenti per simulare le normali sollecitazioni a cui possono essere sottoposte durante l’uso».

 

Nel primo trattamento è stata studiata l’apertura e la chiusura del tappo ripetendola una, dieci e cento volte (nell’ultimo caso con pause da un minuto per ogni venti aperture al fine di evitare surriscaldamenti locali) per verificare il possibile rilascio di microplastiche dalla zona del collo e del tappo. Nel secondo, allo scopo di valutare il rilascio dalle pareti interne in conseguenza di ripetute compressioni e dell’utilizzo prolungato, le bottiglie riempite a metà sono state fatte rotolare per uno e dieci minuti sotto un peso da mezzo chilo, facendo compiere loro un giro completo al secondo.

Microplastiche isolate da un campione di acqua prelevato nel golfo di La Spezia

Il rilascio dal tappo

«I risultati ottenuti, confrontati con dei “bianchi” di laboratorio preparati ad hoc con microplastiche standard, sono stati abbastanza sorprendenti» continua Marco Ortenzi. «Al contrario di ogni ipotesi, sembra infatti che siano i tappi in HDPE i maggiori responsabili del rilascio di particelle nell’acqua, probabilmente a causa del fatto che il polimero è nettamente più morbido del PET e quindi viene abraso dai ripetuti cicli di apertura e chiusura dei tappi. Su questi ultimi sono infatti state trovate quantità molto variabili di frammenti, che spaziano tra circa 60.000 e 1.200.000 particelle». Il risultato è stato confermato da immagini acquisite tramite microscopia elettronica a scansione (SEM), dalle quali emerge inoltre che il tappo di uno dei tre marchi di acqua rilascia microplastiche in quantità dieci volte superiori rispetto agli altri due. «Abbiamo pensato che la maggiore abrasione fosse imputabile a un contenuto inferiore di lubrificante nei tappi, ma l’ipotesi si è rivelata inesatta: la chiusura peggiore era quella con il contenuto più elevato di additivo» continua Marco Ortenzi. «Le differenze sono state perciò correlate alla diversa geometria dei tappi, che probabilmente in alcuni casi generavano attriti elevati nelle zone di contatto, portando quindi a un’abrasione più rapida». Il PET ha invece dimostrato una buona resistenza alle sollecitazioni meccaniche applicate sulle bottiglie. «L’analisi delle acque minerali ha infatti rilevato una quantità esigua di microplastiche, pari a 148±253 particelle/litro (si noti l’errore superiore al valore ottenuto), senza particolari differenze tra le bottiglie nuove e quelle sottoposte a trattamento per dieci minuti».

Larva della rana Xenopus laevis che ha ingerito microplastiche di polistirene azzurre

Le interazioni tra gli organismi e le microplastiche

Se lo studio della dispersione delle microplastiche nell’acqua minerale – e in generale nei diversi ecosistemi – non è affatto semplice, l’analisi degli effetti sugli esseri viventi si complica ulteriormente. «Lo sbaglio più grande è cercare di pubblicare risultati sensazionali in tempi rapidi, correndo il rischio di trascurare l’accuratezza metodologica, di non specificare i limiti degli approcci sperimentali adottati o, forse ancora peggio, di dimenticare il rigore scientifico» precisa Marco Ortenzi. «Se si espongono organismi di dimensioni ridotte, rispetto ai quali le microplastiche sono relativamente grandi, a concentrazioni 1.000 o 10.000 volte superiori a quelle trovate negli ecosistemi naturali è facile dimostrarne la tossicità. Per ottenere risultati affidabili è necessario effettuare esperimenti rigorosi in condizioni standardizzate, che consentano di ottenere risposte attendibili alla domanda: “le microplastiche sono tossiche?” senza che intervengano altri fattori» conclude.

Crostacei e polistirene

I due ricercatori milanesi si sono concentrati anche sul tema della tossicità delle microplastiche per gli esseri viventi. «Il primo studio è stato avviato basandoci sull’approccio metodologico più semplice» spiega Marco Parolini. «Come “organismo modello” abbiamo deciso di utilizzare la pulce d’acqua (Daphnia magna), un piccolo crostaceo comunemente presente nello zooplancton dei nostri ecosistemi dulcacquicoli. Daphnia magna ha diversi pregi: un ciclo vitale breve, è facilmente allevabile in laboratorio e mostra una risposta agli inquinanti di elevata significatività. Inoltre, è un organismo filtratore, cioè si nutre delle particelle sospese nella colonna d’acqua e quindi anche di microplastiche».

Esemplari di Daphnia magna che hanno ingerito microplastiche di polistirene rosse

La ricerca è stata condotta utilizzando particelle di polistirene di forma sferica molto omogenee, con due diversi diametri (uno e dieci micrometri), e colorate in modo da poterle visualizzare facilmente. Le pulci d’acqua sono state allevate per 21 giorni in soluzioni contenenti tre livelli molto differenti di microplastiche (0,125, 1,25 e 12,5 microgrammi/litro). I test hanno dato risultati contrari alle attese.

«Gli organismi esposti alle concentrazioni più basse non hanno evidenziato alterazioni significative né nell’accrescimento né nel comportamento natatorio e riproduttivo, mentre quelle trattate con la concentrazione più elevata hanno mostrato maggiori crescita, motilità e successo riproduttivo» sottolinea Marco Parolini. «Abbiamo ipotizzato che l’aumento della motilità fosse riconducibile a un tentativo degli organismi di liberarsi dalle microplastiche adese alle loro appendici o di fuggire da un ambiente molto contaminato. L’aumento del successo riproduttivo è invece imputabile a uno sforzo terminale, che va nella direzione della conservazione della specie: generando una prole più numerosa aumentano infatti le possibilità di superare le condizioni avverse».

PET, vongole e ricci di mare

«Il polistirene non è una delle microplastiche più frequenti nell’ambiente e la forma sferica e omogenea delle particelle utilizzate negli esperimenti non rispecchia le condizioni esperite dagli organismi in condizioni naturali. Pertanto, abbiamo pianificato nuove prove utilizzando un materiale plastico più diffuso come il PET» continua Marco Parolini. Triturando con un macinino alcune bottiglie in PET, i ricercatori sono riusciti a ottenere frammenti di forma irregolare e con bordi appuntiti, molto più simili a quelli dispersi nell’ambiente. «Le pulci d’acqua, però, non riescono a ingerire questo tipo di particelle perché di dimensioni troppo elevate, ma anche perché – dato il peso – tendono a distribuirsi prevalentemente sul fondo rispetto agli strati superficiali. Abbiamo quindi individuato delle specie più compatibili con queste caratteristiche, scegliendo due organismi bentonici con stili di vita diversi tra loro: la vongola filippina (Ruditapes philippinarum), un filtratore che vive infossato nel sedimento, e il riccio di mare (Paracentrotus lividus) che è invece un raschiatore dei fondali».

Immagine al microscopio della sezione di una vongola filippina in cui si può notare una microplastica di PET all’interno del tubo digerente (freccia nera)

Al momento le ricerche sono concentrate su tempi brevi di interazione tra il PET e gli animali. «Le vongole mantenute per sette giorni in acque contenenti due concentrazioni molto diverse di PET (0,125 e 12,5 microgrammi/litro) hanno purtroppo evidenziato qualche effetto negativo: abbiamo infatti osservato una lieve situazione di stress ossidativo nelle branchie, ma fortunatamente nessuna alterazione a livello dell’apparato digerente» spiega Marco Parolini. Lavorando con i ricci di mare, i ricercatori hanno rilevato che non si cibano spontaneamente di scaglie di PET, pertanto per favorirne l’ingestione hanno dovuto nasconderle nell’alimento somministrato nel corso dei sette giorni di esperimento. Gli organismi sono stati esposti a tre livelli di concentrazione, ovvero 8, 80 e 800 particelle di PET per grammo di cibo. Il polimero ingerito è stato poi recuperato dagli escrementi, che sono stati distrutti per ossidazione. «Anche in questo caso abbiamo osservato degli effetti negativi: se da un lato i denti del riccio riescono a intaccare il PET alterandolo fisicamente, dall’altro compare una lieve modulazione dello stato ossidativo del riccio stesso che, se sottoposto a un’interazione prolungata con le microplastiche, potrebbe tradursi in effetti ben più seri» spiega Marco Parolini.

La tossicità delle microplastiche

I risultati di questi esperimenti lasciano presagire effetti nefasti per l’uomo? «L’interazione con le microplastiche può essere innocua o destare preoccupazioni a seconda di diversi fattori, tra cui il polimero che compone i frammenti, le dimensioni dell’organismo che li ingerisce e la concentrazione a cui è esposto» commentano i ricercatori. «Gli studi attualmente disponibili non mostrano correlazioni chiare ed evidenti che ci permettano di trarre conclusioni inconfutabili sul rischio, ma sono fondamentali per tracciare un percorso che in futuro servirà a comprendere il fenomeno, in modo da adottare misure correttive intelligenti e ponderate» concludono Ortenzi e Parolini.


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