PMI, pieno recupero entro il 2022

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Dopo due anni dall’inizio della pandemia, al netto delle tensioni geopolitiche internazionali che probabilmente influiranno sull’andamento dell’economia globale, le imprese italiane hanno mostrato segni di crescita, con una ripresa che si è rafforzata nella seconda metà del 2021. Indipendentemente dai dati macroeconomici, risulta interessante studiare il fenomeno da dentro, analizzando bilanci, solvibilità, crediti e pagamenti delle compagini. Ma è altrettanto interessante capire quali sono le migliori strategie per il futuro e perché sta cambiando il sistema “assistenziale” per le imprese.

Lo abbiamo fatto attraverso i dati del Rapporto Cerved PMI 2021, che fotografa l’evoluzione della condizione economico-finanziaria delle piccole e medie imprese durante il 2021 con una serie di prospettive per l’anno in corso. La nostra analisi segue le linee guida del G30, in una lucida visione delle migliori scelte per una ripresa effettiva. Il Rapporto, in particolare, analizza le performance delle PMI, nella forma di società di capitale non finanziarie, secondo i requisiti definiti dalla Commissione Europea in rapporto a dipendenti, fatturato e attivo di bilancio. Il campione analizzato – che riproduce l’andamento generale della totalità italiana – è composto da circa 160.000 società (159.925), di cui 132.959 piccole e 26.966 medie, che rappresentano il 20% delle imprese che hanno depositato un bilancio valido e occupano 4,5 milioni di addetti (2,4 milioni in aziende piccole e 2,1 milioni in aziende di medie dimensioni).

Il rischio di default, tra liquidità e debiti

Analizziamo cosa è successo alle imprese nel 2021 e quali rischi hanno affrontato. Partiamo dal rischio di default. Con gli interventi pubblici, le moratorie e i prestiti garantiti, le PMI hanno aumentato la propria liquidità e nel 2021 hanno segnato una fase di ripresa. Se nel 2020 la quota di PMI ad alto rischio di default ha raggiunto il picco massimo del 13,4%, contro l’8,4% del 2019, a fine 2021 il valore è sceso al 10%. In realtà, anche questo dato è frutto di una media tra i diversi settori, considerando la natura asimmetrica della crisi. È tuttavia un dato in miglioramento, sebbene non siano ancora stati raggiunti i valori del 2019.

Connessa al default c’è la questione debitoria: dal 2019 al 2021 i debiti finanziari delle PMI sono cresciuti di quasi 50 miliardi di euro, passando da 232,5 a 280,6 miliardi di euro con un aumento totale netto del 20,69%. In realtà, sebbene il valore dell’esposizione debitoria sia aumentato, nel 2021 abbiamo assistito a un miglioramento di qualità. Infatti, la variabile debito va letta anche in considerazione del debitore, funzionalmente alla sua solvibilità. Quello che è accaduto nel 2021 non è preoccupante se consideriamo che l’incremento debitorio ha riguardato soprattutto le imprese considerate “sicure” e quelle “solvibili”, mentre le vulnerabili e rischiose hanno diminuito il valore assoluto dei propri debiti, anche perché probabilmente non hanno trovato creditori disposti a finanziarli.

Solvibilità e ritardo, due campanelli d’allarme

Con le lunghe chiusure e una domanda fortemente frenata, molte aziende hanno dovuto affrontare una temporanea crisi di liquidità. Tuttavia, con la vasta disponibilità di garanzie pubbliche, le banche hanno potuto soddisfare le richieste, aumentando il numero di prestiti a medio-lungo termine.

La crisi dei mancati pagamenti è stata solo una parentesi temporanea che ha toccato l’apice nel maggio del 2020, ma già dopo un anno (giugno 2021) gli indicatori mostravano addirittura una situazione migliore rispetto a quella pre-crisi, con una quota più bassa di fatture non saldate, una maggiore puntualità e tempi di pagamento più rapidi. Probabilmente parte del merito di questo progresso è attribuibile anche all’irrigidimento delle condizioni in fattura, segno evidente di una maggiore prudenza da parte del venditore.

Secondo un’indagine di Payline – database che raccoglie le abitudini di pagamento di più di 3 milioni di imprese italiane per analizzare l’evoluzione della liquidità delle PMI, valutandone l’affidabilità economica – nel 2020 i crediti e i debiti commerciali, nei bilanci delle PMI, hanno segnato una diminuzione inferiore ai ricavi; in questo modo non si è azzerata la liquidità del sistema e la crisi dei mancati pagamenti è durata meno del temuto. Infatti, subito dopo maggio 2020, mese di picco massimo, i valori sono costantemente migliorati. Le condizioni in fattura hanno però subito un irrigidimento, chiaro segno di un atteggiamento prudente nell’offerta commerciale. Nel mese di giugno 2021 si è arrivati a valori positivi dei pagamenti addirittura migliori rispetto a quelli pre-crisi, con le ovvie eccezioni nei segmenti maggiormente colpiti, ovvero i cosiddetti aggregativi. In particolare, è stato analizzato un campione di 115.000 PMI ed è risultato che nel biennio giugno 2019-giugno 2021 le abitudini di pagamento delle PMI italiane sono cambiate, con un irrigidimento delle condizioni, frutto di una necessaria maggiore prudenza di chi concede un credito commerciale. Si sono accorciati i termini concessi in fattura ed è aumentato il grado di severità per selezionare le controparti, con una penalizzazione delle PMI considerate come più fragili.

Il fenomeno è frutto della percezione, da parte dei fornitori, di un possibile rischio di insolvenza degli acquirenti. Nel giro di 12 mesi i fornitori hanno irrigidito le scadenze, con un inasprimento dei termini che è sceso al di sotto dei 30 giorni: dal 2017 al 2019 il numero delle imprese che ha chiesto un’abbreviazione delle scadenze di pagamento (sotto i 30 die) è passato dall’8,7% all’8,3%, segno evidente di una condizione rilassata negli scambi commerciali. Nel 2020 la quota è cresciuta di 9,5 punti e nel primo semestre 2021 ha raggiunto il 9,7%.

A questa rigidità corrisponde un buon virtuosismo nei rinvii di pagamento. In piena emergenza, i ritardi medi delle PMI hanno raggiunto 11,7 giorni (+2,4 giorni rispetto allo stesso periodo del 2019), ma già nel secondo semestre 2020 e nel primo semestre 2021 le tempistiche sono migliorate, con un ritardo medio di otto giorni, valore inferiore a quello registrato nel periodo pre-pandemico (9,4 die). Questo dato non ha un aspetto meramente nozionistico, ma serve alle imprese per capire se la controparte inizi a mostrare segni di dissesto finanziario, indizio anticipatore di situazioni difficili. Di fatto, la prima reazione di un’impresa in assenza di liquidità è disattendere gli impegni presi con i propri fornitori. È pur vero, però, che un ritardo potrebbe essere una strategia aziendale per la gestione di liquidità. Nel dubbio, il dato deve essere monitorato.

I nuovi elementi di rischio

Oltre ai classici elementi di rischio, negli ultimi anni sono stati inseriti in ambito di due diligence nuovi fattori: il climate change e la transizione. Il primo elemento è considerato importante nell’analisi di default perché, secondo recenti indicazioni della BCE, afferisce al rischio climatico. Il rischio transizione, invece, destabilizza gli investimenti delle imprese verso un sistema a emissioni zero nell’ambito del Green Deal europeo, creando comunque un danno. Dunque, in una macroanalisi dei rischi, collegando tra loro il rischio di credito, fisico e di transizione, sono almeno 46.000 le PMI che presentano uno dei tre rischi, per un totale di debiti finanziari presenti nei loro bilanci pari a 104 miliardi di euro. Questo dato diventa rilevante soprattutto per gli operatori del credito, non solo in quanto minaccia ma anche come opportunità: libere dallo spettro del fallimento di propri debitori, le stesse banche potrebbero infatti sostenere le PMI in ambito di riconversione, anche grazie alle risorse del PNRR. Con una costante spada di Damocle puntata, l’aspetto creditizio diventa zoppicante.

Gli interventi di mitigazione

A consuntivo, qual è lo stato di salute dell’imprenditoria italiana? Secondo gli esperti, oggi è ancora presto per avere un quadro globale e preciso delle uscite dal mercato di aziende colpite dalla crisi pandemica. Nel 2020 si sono registrate chiusure inferiori rispetto al 2019 (-23,6%), così come nei primi sei mesi del 2021 (-28,2%). Come si spiega questo dato? Gli interventi governativi nel periodo pandemico e nei mesi successivi hanno congelato le chiusure d’impresa. Di fatto, interventi normativi come la dichiarazione di improcedibilità dei fallimenti o la sospensione dell’operatività dei tribunali – con il contestuale rallentamento dei processi – ha frenato il numero di liquidazioni. Consideriamo, poi, le agevolazioni destinate alle imprese in difficoltà, tra cui la CIG, le garanzie pubbliche, le moratorie, i sussidi e i ristori.

L’insieme di questi provvedimenti ha evitato l’uscita dal mercato di molte realtà in difficoltà, concedendo mesi di respiro per poter arrivare a utilizzare le agevolazioni del PNRR. C’è però da ricordare una verità a tratti scomoda: molte PMI, già prima del Covid, navigavano in una situazione di fragilità finanziaria, successivamente aggravata dalla pandemia. Secondo il Gruppo dei 30 (G30) – organizzazione internazionale che riunisce finanzieri e accademici di tutto il mondo che si confrontano su questioni economiche globali – servirebbero 21 miliardi di equity per far sì che tutte le PMI riuscissero a tornare ai livelli di leverage pre-Covid, evitando così 4.000 fallimenti, che diventerebbero 8.000 se i supporti pubblici venissero immediatamente interrotti. Si “salverebbero” 114.000 posti di lavoro e 10,5 miliardi di debiti finanziari, che non diventerebbero crediti deteriorati. Quanto è probabile un intervento di siffatta portata? Poco. È stato già fatto molto e, secondo un calcolo del G30, senza l’intervento governativo le chiusure delle società italiane nel 2020 sarebbero state superiori di almeno 11 punti. Siamo di fronte a un bivio. Se, da un lato, il totale trasferimento dei danni pandemici sulle spalle di Banche e Stato diverrebbe troppo assistenziale e rallenterebbe il processo di incentivazione finalizzato a un buon funzionamento del mercato, dall’altro lasciare l’imprenditore da solo, con perdite totalmente a suo carico per colpe di fatto non sue, costituisce un pesante rischio nel caso di assenza di liquidità. La soluzione sarebbe, come sempre, un giusto compromesso che coinvolga tutti gli attori. Ma su questo punto il G30 è particolarmente spietato.

La strategia delle potenzialità

Secondo il G30, l’impatto economico del Covid è stato differente dalle precedenti recessioni: dopo uno shock improvviso e di forte intensità, sia sull’offerta sia sulla domanda, con un repentino crollo dei ricavi, importanti perdite e forti fabbisogni di liquidità per garantire la continuità aziendale, il Governo ha risposto con una politica economica di forte sostegno pubblico diretto (ristori, indennizzi, moratorie, riduzioni e sospensioni di imposte, attivazione e ampliamento della CIG) e indiretto (garanzie sui prestiti e aumenti di capitale agevolati). Confrontando i dati italiani con quelli europei, il nostro intervento pubblico è stato tra i più elevati (43,8% del PIL), con una maggiore concentrazione in sostegni indiretti (81% degli interventi).

In questo modo si è generato un effetto leva che ha gravato meno sul bilancio pubblico; tuttavia, se da un lato è stata evitata una crisi di fallimenti, dall’altro non si è riusciti a frenare l’aumento del numero di imprese a forte rischio di insolvenza. Inoltre, se nella fase acuta della crisi gli interventi hanno avuto carattere di urgenza, con una platea universale, nel corso dei mesi si sta abbandonando la scelta di un aiuto “indiscriminato” e ci si concentra su imprese che hanno il potenziale per creare valore e occupazione nel medio periodo. È infatti fondamentale che le risorse vadano a migliorare le imprese deboli, ma non agonizzanti, perché non avrebbe alcun senso sprecare denaro senza possibilità di ripresa. Diversamente, rafforzare PMI indebolite ma capaci di creare ricchezza, rappresenta una prospettiva di futura crescita.

Ma si riesce a discriminare se un’impresa è giunta alla fine oppure ha ancora del potenziale? In un documento del Gruppo sono indicate le linee guida per gestire al meglio questa fase di risorse, operando una distinzione tra le imprese in base al grado di sostenibilità economica e finanziaria. La prima è rappresentata dalla capacità di generare ricavi superiori ai costi, mentre la seconda coincide con la capacità di far fronte agli impegni finanziari presi. Un’azienda sana dovrebbe mostrare entrambe. Tuttavia, con la pandemia il nesso tra la sostenibilità economica e finanziaria è stato indebolito e, a causa di perdite ingenti, anche le migliori imprese – profittevoli e ben amministrate – hanno riportato delle perdite così considerevoli da dover mettere a rischio la propria continuità aziendale. Incrociando i dati relativi alla sostenibilità economica e finanziaria è possibile capire su chi puntare e a chi destinare le risorse, senza commettere errori di valutazione ed evitando di accanirsi su situazioni ormai terminali. D’altra parte, è quello che succede già con i Bandi pubblici per il sostegno diretto e indiretto. Le normative specifiche per l’ammissione al beneficio operano già una scrematura, considerando i ferrei requisiti per poter partecipare e le severe istruttorie di carattere tecnico-finanziario prima di poter arrivare alla concessione dei sostegni. Alla luce di questi presupposti, il supporto pubblico dovrebbe consistere nell’apporto di liquidità destinato a imprese con buone prospettive economiche (economically viable), seppur con eventuali problemi di natura finanziaria. Al contrario, le imprese senza prospettive economiche – le cosiddette zombie firms – e quelle prive di una struttura finanziaria robusta vanno messe in secondo piano.

Cosa ci riserva il 2022

Le previsioni positive per l’anno in corso prevedono un ritorno alla normalità, favorito dalla copertura vaccinale e dall’impatto atteso dei fondi del PNRR, con un’ingente quota di finanziamenti pubblici destinati all’Italia. Secondo il Rapporto Cerved, considerando i modelli di previsione dei bilanci, la ripresa dell’economia avrà effetti sui conti economici delle PMI e si prevede, per fine 2022, un pieno recupero dei livelli pre-crisi del ROA (return on assets), l’indice di bilancio che misura la redditività complessiva di un’attività.

Al di là di fattori esterni, tra cui l’aumento del costo delle materie e la variabile “guerra”, al momento imprevedibile, grazie alla fase fisiologica di uscita dalla crisi (phasing out) e alle risorse PNRR, alle imprese verrà offerta la possibilità di superare alcune lacune storiche produttive, con un aumento del tasso di crescita dell’economia italiana. È ancora troppo presto, però, per capire come l’attuale situazione geopolitica influenzerà lo scenario macroeconomico italiano che, secondo le stime iniziali, avrebbe dovuto mostrare un pieno recupero del livello di attività economica entro la seconda metà del 2022, con una forte crescita degli investimenti. Non si prevedono interruzioni forzate delle attività economiche o possibili restrizioni, ma nei prossimi mesi bisognerà rivedere le stime di crescita alla luce del primo trimestre 2022 sul quale ha pesato il caro prezzi e il conflitto tra Russia e Ucraina.

Come ormai noto, la ripresa economica dipende fortemente dalle dinamiche dei prezzi delle materie prime, soprattutto in campo energetico, con una crescita spropositata causata inizialmente dalla forte domanda e poi da ulteriori fattori di approvvigionamento. La difficoltà di reperimento di alcuni beni ha rallentato molte produzioni e rischia di bloccarne altre, e ciò si ripercuote tautologicamente sull’intero settore. A livello mondiale, almeno per il momento, sembra non ci siano politiche monetarie restrittive, anche se l’eccessivo rialzo dei prezzi potrebbe modificare la guidance. Staremo a vedere.


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