L’oil crash inquieta la petrolchimica statunitense

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Il mercato del petrolio era in agitazione ancor prima dell’insorgere dell’epidemia di Covid-19: il rallentamento dell’economia mondiale e uno scontro sui prezzi tra Arabia Saudita e Russia avevano già compresso le quotazioni del greggio, anche se a un livello ancora accettabile per garantire adeguati margini all’industria petrolifera.

Petrolchimica un frenata

Fabbriche ferme e automobili in garage, prima in Cina e poi nel resto del mondo, hanno comportato una riduzione del 20% della domanda di greggio che – a sua volta – ha innescato un ulteriore crollo dei prezzi, così repentino e profondo da far temere un vero e proprio “oil crash”. All’inizio di marzo, dopo il fallimento di una riunione dell’Opec che avrebbe dovuto sostenere le quotazioni attraverso tagli della produzione, il Brent è sceso fino a 31 dollari al barile, un livello che non si vedeva dalla crisi della Lehman Brothers del 2008. Nelle settimane successive, con il dilagare della pandemia, il prezzo è sceso ancora, fino a toccare 20 dollari al barile all’inizio di aprile, oscillando su quotazioni ai minimi storici.

Margini a rischio

Si potrebbe pensare che un barile molto economico sia una manna per l’industria petrolchimica e delle materie plastiche, che trae dal petrolio l’etilene e altri feedstock chiave per le proprie produzioni. E ciò vale per molti Paesi, tra cui il nostro. Va però considerato che i principali player del settore petrolchimico sono, innanzitutto, società petrolifere, che con la discesa del prezzo del barile vedono assottigliarsi, fino a scomparire, i margini che sostengono le attività mid e downstream.

Ombre sullo shale gas

Negli Stati Uniti, lo scenario è ulteriormente complicato dal massiccio ricorso allo shale gas, etano ottenuto mediante fratturazione sotterranea di rocce, che negli ultimi dieci anni ha consentito all’industria chimica nordamericana di approvvigionarsi in loco di una materia prima economica, alternativa al petrolio, per ottenere etilene e da questo poliolefine e altre plastiche commodities. Conveniente a condizione che il prezzo del petrolio resti sopra i 30-40 dollari al barile. Sotto questa soglia, infatti, il costo di estrazione dello shale gas è superiore al suo valore e l’industria estrattiva entra inevitabilmente in crisi. A 20 dollari al barile – se questo livello non è di breve periodo – il rischio di fallimento per i produttori di shale gas è molto alto, anche perché il comparto è pesantemente indebitato. Di converso, a 25 dollari al barile, produttori come la Russia o i Paesi arabi sono ancora in grado di fare utili.

Rallentano i cracker

La dipendenza della petrolchimica USA dallo shale gas è tutt’altro che marginale: secondo stime dell’American Chemistry Council, questa materia prima autarchica ha portato, dal 2010 a oggi, a 340 nuovi progetti petrolchimici, per un investimento superiore a 200 miliardi di dollari. Si tratta di cracker per etilene e impianti a valle per poliolefine e altre specialità, in parte già completati e in funzione, alcuni in corso di realizzazione e altri in fase di approvazione. Alcuni cantieri sono stati rallentati o fermati temporaneamente – motivando la decisione con i rischi di contagio per i lavoratori – mentre progetti che devono ottenere il via libera difficilmente verranno approvati in questi mesi. Per capire i volumi in gioco, basti pensare che – per il solo etilene – la capacità statunitense era pari a circa 28 milioni di tonnellate annue nel 2015 e dovrebbe oltrepassare 40 milioni di tonnellate entro la fine di quest’anno.

Petrolchimica in attesa

Alcuni big del settore, tra i cui Dow, ExxonMobil e Chevron Phillips Chemical hanno avviato i loro impianti tra il 2017 e il 2018; altri – come Sasol, Shintech, Westlake Chemical con Lotte Chemical e Formosa Plastics – hanno messo in marcia cracker e impianti a valle nel 2019, mentre entro la fine di quest’anno dovrebbero partire quelli di Indorama, Total-Borealis e Dow. In questo scenario volatile e difficile da interpretare, alcuni gruppi – tra i quali Dow e Shell – hanno deciso di rivedere gli investimenti in conto capitale già stanziati. Altri, prima di rivedere i piani di medio periodo, attendono alla finestra per capire quanto durerà l’emergenza Covid-19 e come reagiranno i produttori storici di oro nero.


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