Cosa succederà alla plastica UK dopo la Brexit?

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La mancanza di chiarezza sulle sorti del Regno Unito in ambito Brexit sta diventando una preoccupazione cogente per l’industria britannica, che presto verrà chiamata a riscrivere il proprio futuro alla luce di nuovi accordi commerciali, nuove tariffe di importazione e nuove idoneità lavorative dei propri dipendenti. Fattori che potrebbero generare un forte impatto sulle imprese, comprese quelle del settore delle materie plastiche, un comparto con un fatturato annuo di 25,5 miliardi di sterline che l’UK dovrà impegnarsi a supportare con politiche a sostegno degli investimenti. E dovrà farlo per almeno due motivi: in primis, perché le aziende più importanti del comparto sono controllate da realtà straniere, e poi perché l’industria britannica delle materie plastiche è fortemente dipendente dalle importazioni, che nel caso dei macchinari arrivano fino all’80%.
Alla luce di queste considerazioni, viene da chiedersi quale sarà il futuro del settore nell’epoca post Brexit. Nella difficoltà di ipotizzare uno scenario, proviamo a ripercorrere le tappe di questo momento storico che irrimediabilmente riscriverà le sorti dell’economia europea, riassumendo in dieci punti le informazioni irrinunciabili.

1 L’articolo 50 del Trattato di Lisbona

Il Trattato di Lisbona è uno strumento normativo considerato come una sorta di Costituzione dell’Unione europea (UE), e prevede un meccanismo di recesso volontario e unilaterale di un paese Membro. Lo Stato che decide di recedere deve notificarne l’intenzione al Consiglio europeo, che presenta i suoi orientamenti per la stesura di un accordo volto a definire le modalità di scissione. L’accordo è negoziato dal Consiglio (a nome dell’UE), che con maggioranza qualificata delibera, con approvazione del Parlamento europeo. Nel momento in cui entra in vigore l’accordo, o al massimo dopo due anni dalla notifica della volontà di recedere, i trattati non sono più applicabili al Paese. Tuttavia, in determinate condizioni – e a richiesta della nazione uscente – il Consiglio può decidere di prolungare tale termine. Lo stesso articolo 50 stabilisce che, negli anni successivi, lo Stato de quo può chiedere ancora di far parte dell’UE con una nuova procedura di adesione.
Definita la norma, ripercorriamo le tappe dell’iter britannico. Il 23 giugno 2016 il referendum indetto dal Regno Unito per l’uscita dall’Unione europea ha visto la vittoria del Leave, con oltre 17,41 milioni di voti, pari al 51,9% degli aventi diritto, contro i 16,14 favorevoli al Remain. Sostenitori dell’uscita sono stati, in particolare, gli Stati di Inghilterra (a eccezione del distretto di Londra) e Galles, mentre in tutti i distretti scozzesi e in buona parte dell’Irlanda del Nord ha prevalso il Remain. Il 29 marzo 2017, secondo quanto disposto dall’articolo 50, la Premier britannica Theresa May ha iniziato le consultazioni con Bruxelles, attivando la procedura di recesso che avrebbe dovuto concludersi entro il 29 marzo 2019.

Nell’incertezza diffusa, l’economia britannica sta soffrendo: nell’ultimo trimestre 2018, i fallimenti personali sono cresciuti di 35 punti percentuali, il valore più elevato degli ultimi sette anni, mentre l’insolvenza delle imprese ha toccato quota 16.090 (+10%), valore record negativo dal 2014

2 Le tappe dei negoziati per la Brexit

Michel Barnier, capo negoziatore dell’UE per la Brexit, negli ultimi due anni ha informato costantemente il Consiglio europeo sull’esito e l’avanzamento dei negoziati. Le riunioni in seno all’UE si sono concluse sempre positivamente, e soprattutto con un verdetto unanime sul fatto che i britannici continueranno a far parte di una forma di unione doganale fino a quando non sarà pienamente in atto una nuova partnership siglata ad hoc tra Gran Bretagna e UE. L’accordo di recesso dovrà inoltre salvaguardare l’Irlanda, in una sorta di tutela operativa e giuridicamente vincolante: non si possono infatti vanificare anni di diplomazia, attentando agli accordi del Venerdì Santo.
In questi anni i negoziati sono andati avanti ma, nonostante gli sforzi, alcune questioni non hanno ancora trovato una soluzione: in particolare, l’impasse riguarda la frontiera fisica tra Irlanda e Irlanda del Nord. Il 15 novembre 2018, il capo negoziatore ha trasmesso il progetto dell’accordo sulla Brexit al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk che, durante la Riunione straordinaria del Consiglio europeo del 25 novembre 2018, ha proposto di rivederlo e formalizzarlo. Il 5 dicembre 2018, la Commissione europea ha finalmente avviato la procedura per la firma e la conclusione dell’accordo sul recesso del Regno Unito.
Il 14 gennaio, Donald Tusk e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker hanno annunciato che il Consiglio e la Commissione avrebbero siglato l’accordo di recesso non appena il Parlamento del Regno Unito avesse espresso il “voto significativo”. La questione è quindi ritornata nelle mani dei politici londinesi, che però non sono riusciti a raggiungere una maggioranza. Più volte il Parlamento britannico ha respinto l’accordo per il divorzio concordato raggiunto dall’UE e Theresa May, rivendicando l’assenza di una soluzione che garantisca l’esistenza di un confine non rigido tra Irlanda e Irlanda del Nord.

Secondo la British Plastics Federation circa il 70% del commercio estero di materie plastiche avviene all’interno del mercato unico UE. L’assenza di un accordo commerciale porterebbe a un aumento dei costi dell’import di 540 milioni di sterline e dei costi dell’export di 340 milioni di sterline

3 Brexit deal o non deal?

E mentre nei mesi di gennaio e febbraio cresceva il timore di un’uscita senza accordo, il 13 marzo il Primo Ministro britannico ha messo all’angolo i parlamentari chiedendo una risposta esplicita e proponendo un accordo “no deal”. Il Parlamento ha respinto la proposta con l’intenzione di trovare un accordo con l’UE, accordo da siglare entro il 29 marzo.
Il 14 marzo è stata messa ai voti un’eventuale proroga della deadline, previo – logicamente – consenso dell’Unione europea. Il Consiglio europeo ha concesso la proroga e quindi spostato in avanti la deadline: nessuna uscita dall’UE il 29 marzo 2019. Dunque, nei prossimi mesi probabilmente assisteremo a scene già viste: accordo sì, accordo no, backstop (si veda il punto 4) e confine, divorzio soft o hard… All’inizio di aprile, la Camera dei Comuni ha dato il via libera a una proposta di legge che vieterebbe l’uscita senza accordo: sarà dunque un divorzio soft?
Quando (a questo punto, forse è più appropriato “quando?”) l’UK non apparterrà più all’UE, almeno inizialmente si tratterà di una sorta di “inizio della fine”, che coinciderà con l’avvio di un periodo di transizione, che con l’uscita del 29 marzo sarebbe dovuto durare fino al 31 dicembre 2020. In questi mesi di transizione, UK e UE dovranno lavorare per porre basi fondamentali alle loro relazioni, soprattutto in ambito commerciale. Londra continuerà ad applicare norme e convenzioni europee per la libera circolazione di cittadini e merci, in una sorta di limbo temporale nel quale sostanzialmente l’UK continuerà ad agire come uno Stato membro senza diritto di voto. Se entro la prossima deadline – ancora ignota – non dovesse raggiungersi un accordo, la separazione potrebbe essere “brutale” oppure avvenire secondo quando previsto dalla nuova Legge – tuttora in fase di emanazione – che prevede un’uscita deal. Lo scenario cambia, di giorno in giorno…

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