Il nuovo oro nero

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Se dall’altra parte dell’Oceano, nei pragmatici Stati Uniti d’America, lo shale gas – o gas da scisti bituminosi – viene considerato da molti la porta che potrebbe aprirsi su una nuova età dell’oro per l’approvvigionamento energetico e la petrolchimica, grazie ai bassi costi di estrazione, in Europa si guarda ancora con diffidenza a questa risorsa, mettendone in evidenza i rischi ambientali, per altro non ancora ben identificati. Alla finestra, i grandi produttori di petrolio e gas, dalla Russia ai Paesi arabi, fino ai nuovi player sudamericani, che temono di perdere il potere che deriva loro dall’avere in mano i rubinetti che portano sviluppo e benessere ai Paesi occidentali.

Cos'è lo shale gas?
Lo shale gas – o gas da scisti bituminosi – è una fonte “non convenzionale” di gas naturale, che viene estratto da formazioni rocciose: gli scisti bituminosi. Si tratta di rocce argillose, originate dalla metamorfosi di materiale sedimentario molto ricco di sostanze organiche – resti di piante e animali – durata centinaia di milioni di anni. Al contrario dei gas convenzionali, dove il giacimento è costituito da rocce porose permeabili nelle quali il gas è migrato a partire dalle rocce ricche di materia organica dove si è generato, lo shale gas è rimasto intrappolato nella roccia d’origine, una roccia ricca quindi di gas, ma poco permeabile (molto argillosa). Queste rocce una volta perforate non lasciano quindi fuoriuscire tutto il gas in superficie. In questi giacimenti gli accumuli di gas si possono estendere per centinaia di chilometri.

Opzione a buon mercato

Con il petrolio destinato prima o poi a esaurirsi, e l’opzione nucleare fortemente compromessa dal disastro di Fukushima, restano come alternative il carbone e il gas. Se il primo è suscettibile di uno sfruttamento anche petrolchimico dove presente in grandi quantità – come per esempio in Cina –, è dal secondo che gli analisti si aspettano i maggiori benefici nei prossimi decenni, anche grazie allo sviluppo di tecnologie a basso costo per estrarlo, non dai giacimenti convenzionali ma dalle rocce argillose, dove il metano è imprigionato da tempi immemorabili. Non è un caso che l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) parli addirittura di una nuova “golden age” per il gas naturale, arrivando a ipotizzare che gli Stati Uniti, proprio grazie allo shale gas, possano superare la Russia nell’estrazione di metano nell’arco di pochi anni.

L’australiana Beach Energy è già in attività con due pozzi esplorativi: Encounter-1 e Holdfast-1. Entrambi i pozzi sono situati nel bacino del Cooper, Australia del Sud

Diffuso un po’ dappertutto

Rispetto a petrolio, carbone e gas convenzionale, lo shale gas sembra meno concentrato in poche aree geografiche; in altre parole, potrebbe rivelarsi una fonte energetica più “democratica”. Giacimenti importanti sono stati identificati in Polonia e in Ucraina, per esempio, ma si ipotizza che ve ne siano di significativi anche in Austria, Francia e in Italia, solo per restare in Europa. Sono gli Stati Uniti, tuttavia, a essere un passo avanti a tutti nello sfruttamento di queste risorse, per una serie di motivi: i vincoli burocratici e ambientali sono minimi, ed esiste una rete di pipeline aperta che favorisce l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti, anche da parte dei proprietari dei terreni, che per la legge americana sono titolari anche di ciò che si trova nel sottosuolo. Quanto basta per lanciare una nuova corsa all’oro, in pieno stile pionieristico, tanto che oggi il gas da giacimenti non convenzionali rappresenta già il 20% del totale, con la stima di arrivare al 60% entro il 2020. A livello globale, secondo le stime, la produzione di shale gas possa triplicarsi entro il 2035.

“Negli USA lo shale gas ha rivoluzionato il panorama energetico facendo crollare il prezzo del gas”

Una rivoluzione che potrebbe cambiare gli equilibri geopolitici nella fornitura di energia, con gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali che potrebbero raggiungere la piena autosufficienza energetica; con una forte ricaduta nel settore della petrolchimica, grazie alla possibilità di produrre etilene da gas etano a un costo sensibilmente più basso rispetto a quello ricavato da petrolio. Ciò significa, tra l’altro, poliolefine a buon mercato, competitive rispetto a quelle prodotte in Medio Oriente, dove sono in corso progetti di decine di miliardi di dollari; e con il rischio di mettere fuori gioco le mature capacità europee, dove il gas è oggi 3-4 volte più caro di quello americano.

Il più grande è negli USA
La più importante formazione che contiene shale gas oggi conosciuta si trova negli USA occidentali: è il Marcellus Shale, che prende il nome dal paese della Pennsylvania intorno al quale per un piccolo tratto questi sedimenti affiorano in superficie: in realtà questi scisti di età medio-devoniana (circa 400 milioni di anni fa) si estendono sottoterra per una fascia lunga centinaia di chilometri che comprende anche parti di Ohio, West Virginia, New York, Maryland, Kentucky, Tennessee e Virginia. Occupano quindi un fianco della catena appalachiana e sono un deposito di fossa connesso alla formazione di questa catena. Lo spessore è ingente – arrivano fino ai 3.000 metri di profondità – quindi i giacimenti di shale gas rappresentano il candidato ideale per un’ampia “coltivazione” di metano.

L’America ha grandi progetti

L’America sembra credere a queste promesse e, come abitudine, lascia da parte i dubbi e mette in campo risorse economiche. L’ultimo annuncio, in ordine di tempo, è giunto da ExxonMobil Chemical, che ha presentato richieste di autorizzazione per costruire a Baytown, in Texas, un nuovo steam cracker da 1,5 milioni di tonnellate annue per la produzione di etilene da etano e, nel vicino impianto di Mont Belvieu, due unità per polietilene, ognuna da circa 650.000 tonnellate annue. I lavori potrebbero partire già nei primi mesi dell’anno prossimo, per avviare le produzioni entro la fine del 2016. Anche Chevron Phillips Chemical non vuole perdere il treno dello shale gas: il progetto, in questo caso, riguarda due linee per polietilene a Old Ocean, in Texas, ognuna da 500.000 tonnellate annue di capacità, da avviare entro il 2017. Il progetto, annunciato nel marzo dello scorso anno, prevede anche la realizzazione di un cracker da 1,5 milioni di tonnellate a Cedar Bayou, nello stesso stato americano.

L’impianto Devon Energy di Northridge (Texas, USA) per l’estrazione di shale gas (foto Devon Energy)

Shell Chemical guarda invece alla Pennsylvania: il gruppo petrolchimico statunitense ha scelto la contea di Beaver County, per mettere in marcia un nuovo complesso petrolchimico costituito da un cracker world-scale per etilene, alimentato con il gas naturale dei vicini giacimenti di Marcellus, che potrebbe essere integrato a valle con la produzione di polietilene e altri derivati, come il glicole monoetilenico.

“Secondo le stime, la produzione di shale gas a livello globale triplicherà entro il 2035”

Un altro importante produttore di poliolefine con interessi negli USA, LyondellBasell, ha ottenuto un finanziamento di 4,5 milioni di dollari dal dipartimento statunitense per l’energia (DOE) allo scopo di sviluppare nuove tecnologie a base di catalizzatori capaci di migliorare l’efficienza energetica nei processi di sintesi di etilene da gas etano. Il progetto di ricerca triennale vede la collaborazione di LyondellBasel, Quantiam Technologies e BASF Qtech. L’obiettivo è di adattare al cracking di etano e gas naturale liquefatto la più recente tecnologia di rivestimento catalitico messa a punto da BASF Qtech per lo steam cracking di etano e nafta. Ai 4,5 milioni di dollari forniti dal governo americano, i partner aggiungeranno ulteriori 2,2 milioni di dollari.

Shell Chemical ha avviato un nuovo complesso petrolchimico costituito da un cracker world-scale per etilene, alimentato con il gas naturale dei vicini giacimenti di Marcellus in Pennsylvania (Foto National Science Foundation)

L’Europa sta a guardare

Diversa la situazione in Europa, dove la rete dei gasdotti è più controllata e lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo è riservato agli Stati e non ai privati; per non parlare dell’iter burocratico necessario per ottenere concessioni per l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimento. La maggiore densità di popolazione, inoltre, rende più complicato operare senza doversi confrontare con le comunità locali, che appena sentono parlare di fracking si mettono, comprensibilmente, in allarme.

Si estrae con il fracking
Il gas imprigionato nelle rocce scistose, molto porose, viene estratto iniettando sottoterra una miscela di acqua, sabbia e additivi chimici in alta pressione, che frattura (fracking) gli strati, provocando la fuoriuscita del metano, che viene immesso in impianti di stoccaggio e avviato al consumo.

La tecnica è utilizzata da quasi mezzo secolo, ma è diventata più efficiente negli ultimi anni, abbinata alla trivellazione orizzontale. I giacimenti si trovano infatti tra i 2.000 e i 4.000 metri di profondità: per raggiungerli si effettua prima una perforazione verticale fino allo strato di rocce e, in seguito, una perforazione orizzontale negli strati rocciosi, seguita dalla fratturazione idraulica. La resa è comunque inferiore: circa il 30% contro più del 70% dei giacimenti di gas tradizionali.

Più che i vincoli normativi e burocratici, a rallentare lo sfruttamento dello shale gas in Europa sembra essere la fronda degli ambientalisti, in qualche caso aiutata – in senso lato – da lobby che vedono in questa nuova fonte energetica la fine di equilibri ben consolidati e di oligopoli fino a oggi molto redditizi. Così, in attesa di approfondimenti scientifici sui rischi ambientali di questa tecnica di estrazione del gas, la Francia ha introdotto per prima una moratoria all’utilizzo del fracking; Bulgaria, Romania e Repubblica Ceca hanno seguito la stessa strada, sospendendo o revocando le concessioni in attesa di certezze dal mondo scientifico. Anche la Polonia, che sperava di raggiungere con lo shale gas l’indipendenza energetica dalla vicina Russia, sta pensando a una moratoria temporanea, rinunciando però a qualcosa come 2.000 miliardi di metri cubi di gas, anche se solo in parte estraibili con le tecnologie oggi disponibili.

L’altra faccia dello shale gas
Non tutti sono convinti che il fracking sia la soluzione ai problemi energetici delle economie mature. C’è chi mette in evidenza il rischio di inquinamento da gas delle falde acquifere, mentre altri associano il fracking al verificarsi di microsismi, rilevati in alcune aree soggette a trivellazione, anche se non ci sono evidenze scientifiche in tal senso. Sembra invece provata l’emissione in atmosfera di quantità di metano, gas climalterante più dannoso dell’anidride carbonica, che possono sfuggire dai giacimenti. In un recente report delle IEA – “Golden rules for a golden age of gas” – vengono indicate alcune regole da seguire per ridurre al minimo l’impatto sull’ambiente, che – se correttamente seguite – comporterebbero aggravi di costo intorno al 7%.

Chi frena lo shale gas

In corsa per lo shale gas c’è anche l’Italia, attraverso ENI, che sta per rilevare diritti esplorativi in Ucraina attraverso l’acquisizione del 50% di Westgasinvest. Il gruppo italiano ha iniziato a investire nel gas da scisti nel 2010 comprando tre licenze nel Baltico e in Polonia, grazie alle competenze tecnologiche acquisite grazie a una joint-venture tecnologica avviata in Texas. In altre aree del pianeta, non sono i timori ambientali a frenare lo sfruttamento di questa risorsa, quanto la mancanza delle grandi quantità d’acqua necessarie all’estrazione del gas di scisto, che utilizzano questa risorsa iniettata ad alta pressione nel sottosuolo per frantumare le rocce e liberare il gas. Così la Cina, pur essendo il principale bacino al mondo di shale gas, trova difficoltà a sfruttarlo. La partita è ancora aperta, visto che petrolio e gas convenzionale per ora non mancano, ma i giochi si fanno oggi, considerati i tempi necessari per esplorare, sfruttare i giacimenti e investire negli impianti a valle. Giochi da cui l’Europa rischia di essere tagliata fuori, con buona pace di nazioni come l’Italia, dove il mix di approvvigionamento energetico è sbilanciato verso pochi fornitori, Paesi non sempre di specchiata stabilità politica ed economica.

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