Shopper, basta falsi miti

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shopper_2State facendo la spesa al supermercato. Arrivati alla cassa vi viene data la possibilità di scegliere il sacchetto che volete. Carta, tela riutilizzabile o plastica? O meglio, plastica tradizionale – magari riciclata – o compostabile? Quale acquistereste in una logica di sostenibilità ambientale?

L’ho chiesto a qualche amico, alla cassiera dello store, ai colleghi, alla mamma, al vicino di casa… Anche a chi della plastica ne ha fatta una professione e a chi la chimica la insegna all’università. Un microcosmo che, come una sorta di Pequod, fosse almeno in piccola parte rappresentativo dell’umanità. Mi hanno risposto tutto e il contrario di tutto, ma soprattutto quasi sempre concludendo con la stessa domanda: “È la risposta giusta?”. Lasciandomi pensare che, dopo tutto, a questo proposito, quasi nessuno ha le idee molto chiare… Quanto ai sacchetti, sono stati quelli in tela riutilizzabili a prevalere, perché “Sono robusti e soprattutto li pago una volta sola. E poi ormai sono talmente abituato a portarmeli dietro…”. Una volta messo alle strette e costretto a scegliere tra le plastiche bio e le tradizionali, il mio piccolo campione – del tutto ignaro che avrebbe visto le sue abitudini raccontate qui – si spezza quasi equamente tra chi preferisce i bioshopper, perché può impiegarli nella raccolta della frazione umida, e chi invece preferisce i sacchetti in plastica tradizionale, più resistenti, riutilizzabili e perfetti, a fine vita, per la raccolta dei rifiuti indifferenziati.

Gente concreta il mio piccolo universo, che forse quando sceglie le borse di tela lo fa più per soddisfare un bisogno di praticità, di robustezza e di convenienza che di attenzione per l’ambiente. Ma anche gente virtuosa, che pensa al fine vita quando deve decidere quale shopper di plastica acquistare. Voce fuori dal coro, la mia anziana mamma che mi chiede: “Ma cosa vuol dire scelta sostenibile?” con il tono un po’ infastidito di chi ha dovuto cambiare le proprie abitudini senza conoscere fino in fondo la ragione, accontentandosi di una spiegazione sommaria. Le rispondo sibillina – sapendo già che mi costerà una mezzoretta tra chiarimenti e discussioni – parafrasando le affermazioni di un paio di amici che la chimica la insegnano all’università: “Per avere la risposta corretta serve un’analisi del ciclo di vita dei sacchetti. Risposta che purtroppo io non so”.

E continuo dicendole che solo da questa analisi può uscire quella vocina che ci dirà se veramente stiamo riducendo l’impatto ambientale netto che le nostre azioni – in quanto individui, professionisti e società – stanno esercitando sull’ambiente. Perché, non esistono materiali più ecologici di altri: alla fine, tutte le materie prime sono di origine naturale, dal petrolio al mais, alle altre risorse vegetali impiegate nella sintesi delle bioplastiche. Per conoscerne l’impatto ambientale bisogna tornare indietro fino all’estrazione – o alla coltivazione – poi analizzare le diverse fasi della produzione dei polimeri, quindi l’imballaggio e il trasporto, l’uso e il fine vita. Ogni singola fase, ogni operazione interagisce con l’ambiente naturale, e possiamo monitorare come questa interazione influisca effettivamente sui sistemi e i servizi che rendono possibile la vita sulla Terra. Facendo questo si imparano cose affascinanti e soprattutto si distruggono falsi miti.

Falsi miti costruiti enfatizzando alcuni aspetti del ciclo di vita e meno altri, rendendo così più o meno ecosostenibile un manufatto piuttosto che un altro. Falsi miti che alimentano il greenwashing che tanto confonde le idee. Falsi miti che i grandi produttori di polimeri – e non solo – dovrebbero sfatare con chiarezza, trasparenza e onestà intellettuale. Magari attraverso studi congiunti, che li portino a risultati condivisi, e fuori da ogni logica commerciale.

Solo così potremo smettere di pensare per sentito dire.

 


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