C’è chi ritorna in Italia: è il back-reshoring

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reshoring

Diventa sempre più consistente la tendenza al ritorno o al riavvicinamento nei Paesi di origine delle operazioni delocalizzate nei territori low-cost. I casi si moltiplicano nel mondo e interessano anche l’Italia. È quanto emerge da studio condotto da un team di lavoro interuniversitario costituito dagli Atenei dell’Aquila, di Catania, Modena e Reggio Emilia, Udine e Bologna. L’indagine si è svolta sotto l’egida del gruppo Uni-Club MoRe Back-Reshoring e porta l’inequivocabile titolo di “Back-reshoring, ri-localizzazione manifatturiera in Italia: Evidenze, motivazioni e opportunità per la manifattura italiana”.  Ne parliamo con il professor Luciano Fratocchi dell’Università degli studi dell’Aquila e uno dei fondatori dell’Uni-CLUB MoRe Back-reshoring.

Il prezzo della delocalizzazione

Alla base dell’analisi ci sono le rilevazioni condotte su circa 500 società italiane o straniere. Il metodo tiene conto delle singole decisioni di ritorno o di riavvicinamento, e pertanto ha previsto che qualora un produttore abbia traslocato da due diverse sedi di offshoring, la sua scelta abbia il peso di due decisioni distinte, per una media complessiva di 1,2 decisioni per ogni impresa. Sono molte le ragioni del back o near-reshoring e non di rado hanno a che fare con errori strategici iniziali. Le delocalizzazioni sono state spesso fondate sul calcolo dei puri costi di produzione (specie quello del lavoro), ma non sui costi complessivi di approvvigionamento, inclusi quelli logistici e quelli della “non-qualità”. E va ricordato che nei presunti paradisi della manodopera a basso costo proprio il costo del lavoro per unità realizzata aumenta costantemente, riducendo la forbice che lo separava da quello dell’Occidente. Sul valore complessivo di un manufatto il costo del lavoro ha un peso percentuale limitato, mentre altre voci hanno incidenza crescente: fra queste trasporti e logistica, con tutto ciò che implicano sotto l’aspetto non solo dei consumi di carburante, ma anche sotto quelli di assicurazioni e spedizioni.

Con il 20% di decisioni, l’Italia è seconda al mondo dopo gli USA (46,6%) per numero di aziende ri-localizzateLuciano Fratocchi

Un’onda lunga cinque anni

Accanto alle istanze di natura meramente economica, a orientare il rientro sono anche motivazioni di diversa matrice. Se, come vedremo, l’abbigliamento è fra i comparti più impegnati nel reshoring in Italia, questo lo si deve anche al fatto che per le imprese clienti dei principali brand la tempestività delle consegne è un elemento decisivo. Inoltre, in particolar modo per i destinatari finali del fashion e segnatamente per la fascia alta del mercato, la certificazione di origine dei prodotti è sempre più importante, così come la sicurezza che vengano realizzati nel rispetto dei diritti dei lavoratori. Poste le debite premesse, le evidenze mondiali in tema di ri-localizzazione del manifatturiero riportano un’ascesa quasi ininterrotta delle casistiche mondiali a partire dal 2008, quindi da prima che la grande crisi divenisse un evento conclamato, con più di 20 fra rientri e riavvicinamenti. Annata da nel mondo primato è stata quella del 2009, quando il back-reshoring ha interessato 50 casi e il near-reshoring si è avvicinato a quota dieci. Dopo il calo, forse fisiologico del 2010, il trend ha ripreso quota fino all’anno in corso. Fra il 2011 e il 2013 le decisioni complessive di volontario rimpatrio sono state circa 220 e una ventina quelle di riapprodo a lidi più prossimi e convenienti. Anche il 2014 sta confermando l’andamento, portando, nel primo semestre, le scelte di ritorno tout court delle produzioni sotto quota 40 e intorno alla decina quelle di riportarsi più vicini a casa. Con il suo 20% di decisioni totali l’Italia è seconda al mondo dopo gli Stati Uniti (46,6%) per numero di aziende industriali ri-localizzate e con il 22,6% è seconda ex aequo con la Francia per il near-reshoring, dopo gli States al 26,4%. Il back-reshoring ha coinciso in 60,3 casi su 100 con un addio alla Cina e (11,8%) all’Asia; mentre il riavvicinamento ha interessato la Repubblica Popolare per il 67,9% delle scelte e l’intera Asia per un altro 15,1%.

Alla fine del 2012 gli stampi per plastica e gomma hanno archiviato 1,7 miliardi di fatturato sui quali le esportazioni hanno influito per il 42%Luciano Fratocchi

Via dalla Cina

Per quanto riguarda lo scenario italiano lo spartiacque è segnato nel 2009, anno in cui si sono verificate 17 decisioni di back-reshoring e tre di near-reshoring, mentre fra il 2012 e il 2014 si sono riaffacciate alla Penisola 29 attività e una si è riposizionata più vicino ai confini. Per il 36% i costruttori italiani hanno abbandonato i confini cinesi e per il 26,7 hanno invece lasciato i territori ex socialisti dell’Est europeo. Il 15,5% delle decisioni ha riguardato nazioni asiatiche differenti dal Dragone e il 17,4 ha al contrario interessato Paesi dell’Europa Occidentale. Quanto al near-reshoring, ha invece allontanato i marchi tricolori per la maggior parte da Pechino (58,3%) oppure dall’Asia (25%), ma di estremo interesse è anche lo spaccato dei comparti produttivi più segnati dalla tendenza, con l’abbigliamento a trainare sia il back (43% delle decisioni) sia il near-reshoring (67%), ma con un ottimo posizionamento della meccanica. Il 12,8% dei ritorni nello Stivale è dovuto al settore auto-moto e alla relativa componentistica, insieme alla meccanica generale; ma a questi si può aggiungere l’apporto da 7 punti percentuali circa di elettronica, elettromeccanica e illuminazione.

Il peso della meccanica

La meccanica occupa un ruolo più determinante nel near-reshoring, contando su un 17% di ri-localizzazioni contro l’8% stimato per il bianco e, più in generale, dal comparto delle home appliance. Uni-Club MoRe Back-reshoring ha affrontato le possibili implicazioni del reshoring per il sistema italiano, ipotizzando che l’effetto “made in” citato a proposito della moda possa creare un circolo virtuoso in cui la ri-localizzazione è al servizio dell’internazionalizzazione. Nel frattempo, le imprese straniere riavvicinatesi al cuore d’Europa, e dunque alla Penisola, possono a loro volta far lievitare l’economia nazionale investendovi direttamente o attraendo forniture alle loro sedi near-shore. Interpellato da Plastix Luciano Fratocchi ha tuttavia messo sul tavolo alcuni distinguo.

Con il 22,6% di decisioni, l’Italia è seconda con la Francia per il near-reshoring, dopo gli States al 26,4%Luciano Fratocchi

Uno scenario diverso

Per Fratocchi motivano back e near-reshoring in primis «problemi di ordine produttivo» coincidenti con la gestione delle forniture e della logistica e con il controllo sulla qualità reale dei prodotti. Alla base dei passi indietro degli ultimi anni stanno però «errori di analisi commessi quando si sono trasferite le attività». E il quadro economico cui gli imprenditori di ritorno si trovano a far fonte è diverso da quello passato. «La crisi – ha osservato Fratocchi – ha ridotto la capacità produttiva di molti stabilimenti nel Paese e vari imprenditori hanno scelto di tornare per non mettere a rischio la sopravvivenza stessa di questi impianti, non senza pressioni delle parti sociali e del territorio; e talora grazie ad accordi e politiche intelligenti per il miglioramento della produttività». Importante è altresì notare che «Difficilmente chi ri-localizza potrà poi impiegare lo stesso numero di addetti che contava prima della delocalizzazione, che ha sortito un impatto negativo di portata maggiore rispetto a quello benefico che potrà giungere dal reshoring» ha sottolineato Fratocchi.

Per ritornare, serve energia

Ma benché Fratocchi sottolinei che sarebbe errato pensare al ritorno delle produzioni come alla panacea per i mali occupazionali del Paese, «sullo sfondo di una situazione tanto complicata quanto quella attuale la ri-localizzazione è benvenuta». Quel che invece ora risulta pressoché assente è una politica industriale capace di fare davvero leva sulla tendenza, rendendo l’Italia ancor più attraente e competitiva agli occhi di chi l’aveva lasciata. Non è solo questione di fisco, né di diritto: «L’energia con i suoi costi elevati è un ostacolo al rilancio degli investimenti nella Penisola – ha considerato Fratocchi – mentre su un ribasso delle tariffe energetiche sta puntando fortemente il Governo britannico di James Cameron, che ha altresì messo in pratica un piano di incentivazioni al rientro. Non a caso, del reshoring, la Gran Bretagna è fra i beneficiari maggiori negli ultimi 12-18 mesi».


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